Elogio all’impermanenza, fine dell’eternità.

Elogio all’impermanenza, fine
dell’eternità.

di Lorenzo Zambini

Rimuovendo i murales di Blu a Bologna, 2016

La Street art nasce per morire, in balia della strada e delle sue conseguenze. Nell’idea stessa della sua creazione non c’è nessuna volontà di tendere all’eternità.
Ed è nella strada che l’opera si fa, nel dialogo con l’ambiente che la circonda, contenuto e contesto si completano, se manca uno dei due aspetti abbiamo la mutilazione della poetica. Sempre più spesso osserviamo, per logiche speculative, tentativi disarticolati di estrapolazione, musealizzazione e conservazione della Street art, pratiche velenose che ne rovinano il senso e le motivazioni profonde, trasformandola in feticcio da collezionisti, in fenomeno da esposizione e da bigliettazione, il contrario per cui è nata. L’unico onesto tentativo per non disperdere l’esistenza degli interventi che nel tempo si producono, mantenendone il senso e avendone rispetto, è la documentazione fotografica, più o meno organizzata, che colloca le opere nell’epoca e nel luogo di cui un brillante esempio è l’archivio che i Guerrilla Spam hanno realizzato sui propri lavori.

Tratto dall'archivio di Guerrilla Spam

L’impatto della Street Art, con tutto il suo bagaglio poetico, ha fortemente ridimensionato la mitica concezione per cui l’opera d’arte sopravvive al suo creatore. Gli street artist hanno scelto strade e piazze come luogo della loro manifestazione artistica, incidere sulla carne viva della città ed entrare nel gioco dello spazio pubblico, contestando il mercato e i classici contenitori dell’arte. I loro interventi, illegali o legali, una volta realizzati, sono in balia dei venti e dei tempi: autorità che ne ordinano la cancellazione, writers che ci intervengono sopra, cittadini che vogliono appropriarsene o gli artisti stessi che decidono di demolirle. A Bologna alcuni anni fa creò clamore lo street artist Blu che cancellò i suoi murales per protestare proprio contro una mostra realizzata con opere prelevate dalla strada. L’atto distruttivo da parte dell’autore diventò un gesto molto più potente rispetto alla sua creazione.

Esemplifichiamo ancora e andiamo a Berlino nel 1986. Il 23 ottobre, su invito del Mauermuseum (il Museo del Muro del Checkpoint Charlie), l’artista americano Keith Haring realizzò un’opera lunga 300 metri sulla facciata ovest del Muro di Berlino, raffigurante una catena orizzontale dalle sue classiche figure umane, dipinte di rosso e di nero su sfondo giallo, collegate tra loro attraverso la congiunzione di mani e piedi. Su quel muro, che impediva la libera circolazione tra Berlino Est e Berlino Ovest, simbolo di divisione e conflitto, Haring ci rappresentò sopra unione e concordia, usando i colori delle due bandiere tedesche. L’intervento attirò l’attenzione di cittadini e media che ne documentarono l’azione, nonostante questo, poche ore dopo la sua realizzazione l’opera venne in parte ricoperta di vernice grigia. Haring, in merito all’accaduto, dichiarò semplicemente che quello non era altro che il destino di tutti i graffiti: l’essere temporanei. Nel giro di poche settimane il murales diventò illeggibile, coperto dai graffiti di altri writers. Tre anni più tardi il muro di Berlino fu buttato giù.

Destroy the wall through painting it, distruggere il muro dipingendolo, questo l’intento artistico di Haring, che usò lo spazio pubblico con consapevolezza, interpretò il contesto storico interagendo con quella specifica realtà, non con altre realtà. Collocò il suo lavoro berlinese nel qui e nell’ora, inserendosi pienamente nelle dinamiche di confronto, di scontro, di trasformazione di quel luogo e di quel momento storico.

Keith Haring, Berlino, 1986

Del resto le città sono organismi viventi: mutano e cambiano, distruggono e costruiscono, si pensano e si ripensano, più o meno rapidamente, alimentate dall’intricato reticolo delle attività umane, un sistema complesso e stratificato tra persone, sistemi sociali, edifici, infrastrutture, servizi e materiali necessari per sostenere la vita dei cittadini a casa, a lavoro, nel tempo libero. Aggiungiamo l’azione e la sedimentazione della Storia, delle storie particolari e del tempo, immergiamo il tutto nei rapidissimi mutamenti economici, politici, culturali che ci attraversano. Se capiamo questo e consideriamo che l’arte urbana è quella modalità della creazione artistica che entra nel tessuto sociale e nella struttura urbana delle città, non possiamo pensare che il suo inserimento possa nascere con l’idea di resistere nel tempo o tendere, ben che meno, all’eternità.

Negli anni le amministrazioni pubbliche si sono approcciate alla Street Art con modalità non proprio equilibrate, oscillando tra essere sceriffi o filantropi. Da un lato la legalità di un intervento come unico criterio di valutazione, quindi la rimozione della stessa e la denuncia dell’artista. Dall’altro lato commissionando e promuovendo murales alla presenza del Sindaco e dei nastri da tagliare.

Premesso che per un Comune trovare la giusta misura su come trattare la Street Art non è banale. E di per sé non c’è niente di illegittimo in questi due diversi approcci. Spesso però rileviamo che l’obiettivo non è tanto quello di costruire le condizioni migliori per far esprimere pienamente un artista, ma è quello di ricercare propagandisticamente consenso tra i cittadini. Per una Istituzione patrocinare un intervento di arte urbana sopra una facciata grigia di un grande palazzo periferico trasformandola in qualcosa di colorato produce attenzione e consensi con il minimo sforzo. Il punto però è distinguere tra un’opera artistica e una imbiancatura colorata. Quasi certamente, in determinati contesti un muro colorato è già di per sé meglio di un anonimo muro grigio, ma può bastare? Non credo. La differenza tra un artista e un bravo imbianchino va conosciuta e riconosciuta, sennò il rischio è di cadere nel decorativo, nel celebrativo, nel politicamente corretto, nel decontestualizzato. Se quell’opera, al di là del contesto, è replicabile su altri mille muri vuol dire che siamo davanti a un’occasione persa.

Un assessore alla cultura non può e non deve sostituirsi all’artista o al direttore artistico, il suo compito è quello di creare il campo da gioco in cui la dimensione artistica e culturale si possa produrre, sviluppare e manifestare al meglio, in cui uno artista possa immergersi e agire nel contesto pubblico con la massima libertà d’intervento, con tutti i “rischi” del caso, senza snaturare i fondamentali della sua visione estetica. Comprendere la poetica artistica, raggiungere una flessibilità nel giudizio, che possa permettere di non dover per forza cancellare gli interventi illegali e neppure sforzarsi di mantenerli nel tempo, come dei tabernacoli da preservare, solo perché finanziati o patrocinati.

Blu rimuove i suoi murales a Bologna, 2016

Se vuoi che qualcuno venga dimenticato allora costruisci una statua in bronzo a grandezza naturale e posizionala in mezzo alla città.

– Lorenzo Zambini

L’esempio di Haring a Berlino è paradigmatico, la missione dell’arte urbana, nelle sue forme più autentiche, radicali e vive, diventa parte attiva del dibattito, incide, ferisce e cicatrizza la pelle dello spazio pubblico, abbatte gli intenti celebrativi, le prospettive museali e non ambisce all’eternità, ma pratica consapevolmente l’impermanenza.
Anche perché per essere ricordati non è necessario esistere. Ogni giorno siamo sottoposti a una stimolazione continua di immagini, un rumore visivo e informativo straripante ci raggiunge e ci invade, portandoci alla mancanza di concentrazione e alla perdita di memoria, visto che nel caos dell’abbondanza, nel costante presente, è impresa ardua selezionare e ricordare. Se l’artista è messo nella migliore condizione di agire, può generare un corto circuito, creare una cicatrizzazione nella società che dia senso e memoria a quello che vuole comunicare. Non importa se l’opera resisterà fisicamente nel tempo, l’importante è che incida le coscienze, che smuova la pubblica opinione, che crei elettricità. Non è un problema di durata, del resto un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più. Le decorazioni e gli intenti celebrativi, con la loro consolazione e prudenza, anche se esistono non si vedono, non parlano, queste azioni si dimenticano facendosi, producono lo stesso effetto di un qualsiasi bronzeo Garibaldi a cavallo.

L’autore

Lorenzo Zambini

Lorenzo Zambini si occupa di ZAP – Zona Aromatica Protetta, un luogo di incontro nel centro di Firenze, uno spazio per la cultura e le politiche giovanili. Laureato in Comunicazione a Siena, gli piace leggere e scrivere, ma preferisce rileggere, riscrivere, rivedere film, rivisitare città. Interessato alla creatività che nasce dal basso e non da quella che cala dall’alto, e crede nel proverbio: non usare una accetta per togliere una mosca dalla fronte di un tuo amico.

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