Fenomenologia dell’intuizione. Intervista a Exit Enter

Fenomenologia dell’intuizione. Intervista a Exit Enter

di Asia Neri

© Archivio fotografico di Exit Enter

In occasione della mostra The sign beyond the signature, ho intervistato per Street Levels Gallery K., meglio noto come Exit Enter. Dieci domande per raccontare dieci anni di produzione e ricerca, quella che l’artista toscano ha realizzato dal 2013 al 2023. Non vi è alcuna intenzionalità nella coincidenza di queste due decine: l’intervista si è svolta in modo spontaneo, senza una premeditazione sull’architettura dell’articolo; i lavori sull’esposizione hanno preceduto la presa di coscienza di questo anniversario decennale. Perché sottolineare questo aspetto? Perché si tratta, in entrambi i casi, di un’intuizione. Nell’indagine sul segno di Exit Enter, è l’intuizione a governarne la gestualità, le traiettorie del movimento, la pressione del pennello sul supporto. È attraverso l’intuizione che l’artista si riappropria della memoria del suo corpo nell’esecuzione di quello stesso gesto, di quell’automatismo istintivo. Dall’intuizione accolta durante gli stati lisergici, emergono invece i suoi mostri, le sue creature umanoidi e robotiche, i suoi esseri indesiderabili. Alla cultura rave e alla musica tekno deve l’intuizione sul ritmo, sulla trance, sulla ritualità tribale. Dalle architetture metalliche di Rosignano Solvay intuisce, apprende e rielabora la risorsa della distopia; dalle altre città viste e vissute, la smaniosa tendenza a consumare lo spazio fino a creare le sue prime panic room.

Insieme abbiamo rintracciato alcune analogie e dicotomie della sua produzione, approfondendo la sua cura per il segno e le relazioni che intercorrono tra le opere esposte in The sign beyond the signature e il suo ‘omino’ che abita i muri delle strade.

© Archivio fotografico Exit Enter

Iniziamo dalle prime tracce del tuo percorso. Quali condizioni, eventi e incontri hanno lasciato un segno rilevante nella tua ricerca?

Ho iniziato facendo la Nemo Academy, una scuola più improntata sul fumetto, ero andato lì perché ai tempi disegnavo personaggi grotteschi e mi ero appassionato al Vernacoliere ma dopo aver iniziato a frequentare i corsi avevo intuito che non mi trovavo molto con quel tipo di percorso. In quel periodo visitai per la prima volta la Biennale di Venezia, mi resi conto che volevo dedicarmi a una sperimentazione più ampia che andasse oltre l’illustrazione. Mi spostai quindi all’Accademia di Belle Arti, sempre a Firenze, dove incontrai il professor Vinciguerra che mi indirizzò verso la pittura astratta. In quel periodo frequentavo molto i free party e facevo uso di sostanze, iniziai a disegnare immaginari svisionanti, con gli amici ci intrippavamo sui miei mostri e su questi animali strani. Lo stile richiamava fortemente quello dei flyer delle feste tekno. E, proprio Vinciguerra, vedendo questi lavori mi spinse ad approfondire una ricerca più gestuale, meno illustrativa, più impulsiva. Ho iniziato così a sperimentare i graffi sull’olio fresco, una tecnica su cui sono tornato a lavorare in occasione di questa mostra. Dal graffio ai graffiti il passaggio è stato stretto e spontaneo. Nel riapprocciarmi a questi segni graffiati, ho scelto di passare dall’olio allo stucco perché mi piaceva l’idea di usare una texture più materica che richiamasse il muro della strada.

Exit Enter, The sign beyond the signature (2021)

Per quanto riguarda la cultura rave invece, come ne sei stato influenzato al di là dell’estetica dei flyer dei free party? Quanto la ritualità dei corpi danzanti e la sperimentazione di stati di trance hanno partecipato all’approfondimento di quell’intuizione sulla gestualità?

I rave e la sostanze mi hanno influenzato molto. Le droghe psichedeliche mi hanno suggerito l’immaginario di questi mondi svarionanti. Il ritmo della musica invece ha influenzato il ritmo della mia stessa gestualità, sono intrinsecamente legate. In realtà, ho iniziato a dipingere proprio alle feste; mi divertivo a pittare sui muri di fabbriche e capannoni, ancora non andavo in strada. Il filone legato ai mostri si lega molto quindi alla musica tekno e alla festa, sono sempre stato affascinato da quella ritualità. Per me era un po’ come andare in chiesa: come le persone che credono si riuniscono ogni domenica mattina a Messa, anche io sentivo di far parte di una comunità con lo stesso credo, percepivo un coinvolgimento altro, un tribalità ormai perduta che emergeva in modo spontaneo, un richiamo a un senso di appartenenza quasi ancestrale. Anche lasciare delle tracce in strada per me si ricollega a questo, a un ritorno verso ciò che è primitivo, al segno e al graffio abbandonato in uno spazio comune a tutti.
Il disegno, soprattutto in studio, rappresenta una via di fuga dalla realtà, un’opportunità per cadere in uno stato di trance: la musica, come la pittura, sono strumenti di immersione totalizzante. Il muro di casse come il muro della strada, la trance della danza come quella del disegno, si tratta in entrambe le situazioni di accogliere e perdersi nella ritualità dell’azione. Lo stato di trance che porta al distaccamento dalla realtà ma, al tempo stesso, a un forte stato di presenza, un contatto con una dimensione di trascendenza. La frequentazione di spazi abbandonati e il desiderio di fuggire dalla realtà hanno plasmato anche le mie città distopiche e biomeccaniche, quei luoghi dove la tecnologia ha ormai preso il sopravvento. Sono sempre stato influenzato anche dall’estetica punk, dalla proposta di una società post apocalittica, ammalata, vinta dai mostri. In realtà sono molto negativo sul futuro.

© Archivio fotografico Exit Enter

Difficile non chiederti allora perché la ricerca per cui sei più noto, quella degli ‘omini’, comunica invece tutt’altro messaggio. I tuoi personaggi risultano gentili, il linguaggio semplice, la narrazione estremamente positiva. Credi che la ricerca sui mostri e su queste visioni distopiche non sia adeguata per il contesto pubblico e urbano? Perché non mostrare questa parte della tua ricerca in strada?

Ho sempre visto la città come un luogo dove lasciare qualcosa con cui le persone possano dialogare, in strada lavoro per chi guarda. Altrimenti potrei lavorare in studio no? Dipingere senza pensare al contesto con cui mi sto approcciando non mi piace. Per me lo studio è il luogo della sperimentazione, le strade rappresentano invece degli spazi dove comunicare in modo semplice, proprio perché non conosco le persone a cui mi rivolgo preferisco utilizzare un linguaggio immediato, diretto. Spesso mi sono trovato a realizzare degli interventi murali in piccoli borghi e paesini, sento che in questi luoghi fare dei mostri non avrebbe senso, preferisco essere più accessibile. 

© Archivio fotografico Exit Enter

A differenza degli ‘omini’ che sono puliti e rigorosi, il tuo segno sula tela è spesso sporco e graffiato, altre volte esibisce colature di colore che invadono lo spazio di altri elementi. Si tratta di un segno privo di pretese e di formalità che quasi sembra voler sovvertire la puntualità degli ‘omini’. Quali condizioni ti hanno portato a elaborare questa dicotomia? 

In realtà l’omino inizialmente era sporco ma solo perché non riuscivo a usare gli spray. L’idea però è sempre stata quella di renderlo più pulito, più grafico. Il lavoro sulle tele è diverso, è più espressionista ed esperienziale: mi piace vedere il tratto del pennello e le colature, in tante tele sulle città, i palazzi sono solo una pennellata. Non faccio mai sfumature o bozzetti, per me spesso vale il ‘buona la prima’ e non c’è mai una volontà di cancellare. Il gesto è l’antitesi della preparazione. Sicuramente ho delle reference, ovvero i miei disegni su carta dove nascono degli elementi che si possono ritrovare anche in alcuni quadri in mostra ma si tratta principalmente di immaginari ai quali mi ispiro. La carta è il mio spazio per fare freestyle, me la porto sempre dietro e proprio per questo me la vivo di più. Spesso quando riguardo il mio sketchbook è come vedere un album fotografico; ogni sketch è una fotografia, mi ricordo dov’ero, cosa facevo e come mi sentivo, come una sorta di diario. Spesso li realizzo anche quando sono in attesa, in fila alle poste o in giro per la città. Ad alcuni di questi mi sono ispirato per la serie Cantieri aperti ma soprattutto per le opere in bianco e nero. Le opere con il bianco e il nero sono riconducibili ai miei lavori più intimi, a quelli dove la ritualità è fortemente presente: la trama del pennello è evidente, mi piace che lo strumento sia molto visibile, che si noti subito.

Exit Enter, dettaglio opera Segni bianchi (2023)

Infatti è proprio la tua pennellata che restituisce un ritmo diverso a ogni opera. È una sorta di partitura che si definisce nello spazio, e dunque, nel tempo, tra l’inizio e l’esaurimento di ogni traccia. Da tempi rapsodici a ritmi più morbidi che ti cullano.

Ma infatti la mia ricerca sulla tela è proprio questo, è un’indagine alchemica: la pressione sulla tela, la varietà delle colature…cosa succede se mentre il colore cola ci faccio un graffio? Oppure se unisco allo stucco un’altra consistenza? Ovviamente c’è anche l’occhio che monitora l’esecuzione, ma la mia ricerca ruota intorno all’interazione tra i diversi medium, oltre al comportamento del pennello mi piace studiare la traccia lasciata da strumenti differenti. Da lì nasce la sperimentazione, mi incuriosisco nel vedere cosa accade. È un processo esperienziale e catartico.

© Archivio fotografico Exit Enter

E questo processo, iniziato nel 2013, continua ancora oggi. Per 10 anni il tuo corpo ha memorizzato una certa gestualità, quella della rapida esecuzione di movimenti che, a loro volta, plasmano simboli. Quale simbologia continui a portarti dietro e quale invece hai scoperto in tempi più recenti? 

La stella graffiata, le spirali, i mostri sono segni archetipici. Richiamano una gestualità quasi infantile che il mio corpo ha acquisito e che ripete in modo spontaneo. Alcune tele della mostra come Abbattimento aereo, Alta tensione, Down the line I e II sono una reinterpretazione su tela di vecchi disegni, anche Slataper 15 riprende degli schizzi che mi riportano alla vista dalla mia vecchia casa di Firenze. 

Mi piace il richiamo a tutto ciò che è primitivo e vorrei che la mia ricerca continuasse a procedere in questa direzione, verso una regressione atavica. Vorrei associare la stilizzazione della figura umana ai graffiti grezzi e ancestrali. Ultimamente mi sono appassionato all’astrobiologia, all’astronomia, all’universo: ho realizzato una serie di buchi neri e cieli stellati che rimandano a una dimensione ancestrale legata al cosmo e alla materia. 

© Archivio fotografico Exit Enter

In alcune tele e pagine del tuo sketchbook, i segni si distribuiscono con forte densità, quasi soffocando lo spazio libero nel tentativo di consumare ossessivamente il vuoto, come se temessi l’emergere del bianco tra il nero dei segni. Cosa ne pensi di questa lettura? Ti risuona in qualche modo?

Riempire lo spazio è sicuramente una smania di conquista, di voler riempire tutto ma non sono mosso dalla paura dello spazio vuoto perché mi piace anche lavorare sul segno in modo minimale. Sono mosso dall’ossessività del gesto e della ripetizione, da un moto ininterrotto che mi permetta di accedere a uno stato di trance spirituale. Un altro elemento importante è il desiderio di costruire un mio mondo, infatti una delle mie fascinazioni è sempre stata l’idea della ‘panic room’, come nel caso del progetto realizzato proprio con Street Levels Gallery, Exit Through the Virus (2020).

Non ho paura quindi dello spazio vuoto in sé, temo piuttosto che quello spazio possa finire. Nel momento in cui disegno, vorrei che quel momento durasse il più possibile perché è proprio mentre traccio quei segni che ogni cosa sembra avere un senso e quando il segno si esaurisce perdo questa dimensione di sicurezza. Il disegno per me è una testimonianza di esistenza. Aggiungerei poi, che questa smania è figlia di una società capitalista, di cui sono figlio anche io e da cui ho appreso questa ansia di consumare gli spazi, una smania nel volerli riempire totalmente. Questo mi riporta anche ai miei primissimi muri, quelli della mia stanza a Rosignano. Ecco, forse quella stanzetta è stata la mia prima panic room. Spesso invitavo gli amici e disegnavamo insieme, era diventata una sorta di bunker-centro sociale.

Exit Through the Virus © Gabriele Masi

Conosco bene la zona di Rosignano, ho sempre trascorso le mie estati tra Vada e le Spiagge Bianche. Lo scenario della lunga striscia di sabbia con la Solvay sullo sfondo è suggestivo, rimanda a un’atmosfera decisamente apocalittica: la fumata grigiastra, quei vulcani metallici e il forte contrasto tra il corpo della fabbrica e quello della spiaggia. Avendo trascorso parte della tua adolescenza proprio a Rosignano, quanto questa cornice ha influenzato il tuo immaginario sulle città degenerate? In che modo le città che hai vissuto sono entrate all’interno della tua produzione in studio?

Rosignano Solvay ha avuto il suo peso nella creazione del mio immaginario distopico. Da piccolo andavo spesso a vedere la fabbrica: le torrette e i cavi della luce di alcune opere rimandano anche a quello scenario. I riferimenti delle città iperproduttive si legano a questi ricordi, anche se è il passaggio da una piccola cittadina come Rosignano a un capoluogo più vivo e caotico come Firenze ad avermi sconvolto. Firenze non è una grande città ma mi ha permesso di uscire dalla mia zona di confort, il trasferimento da un paesino di mare a un luogo con architetture molto diverse è stato in parte traumatico. Passando le prime volte da Campo di Marte, vedere la ferrovia e tutto quel cemento mi ha suggestionato in modo contraddittorio, ne ero attratto e al tempo stesso infastidito. I palazzi a volte sono diventati la scusa per innescare un certo gesto, una certa pennellata. Sono sempre stato affascinato dalle architetture: grattacieli, arcate, palazzoni in serie. Le mie città racchiudono i vizi e gli eccessi della società contemporanea, dal traffico alla smania del capitale, le droghe, i riferimenti sessuali ed erotici. E qui torna nuovamente la cultura rave che abita i capannoni e gli spazi abbandonati. Una volta ero entrato in un trip in cui vedevo la festa come un ambiente mostruoso e quindi anche le città che disegnavo in quel periodo si erano trasformate in un vero e proprio inferno, un luogo dello sballo, un paese dei balocchi governato dall’esagerazione e dall’eccesso.

© Archivio fotografico Exit Enter

Far convivere questi paesaggi urbani disumanizzati con il progetto dell’’omino’ apre inevitabilmente una questione di natura identitaria. L’’omino’ è la tua tag, la tua firma, il tuo codice. Le opere di The sign beyond the signature invece non rientrano nell’alfabeto fortemente riconoscibile e caratterizzante di Exit Enter. Senti appartenere questo percorso alla tua identità o lo percepisci come una presenza altra, disconnessa? Dopo la mostra The sign beyond the signature, tenterai di ricongiungere questi due linguaggi? Inizierai a portare in strada anche il discorso intorno al segno più istintivo?

Queste visioni appartengono tantissimo a me ma non so quanto appartengano a Exit Enter. Non so se cambiare o creare una nuova identità, faccio fatica a mischiare questo sfogo marcio e prepotente all’‘omino’ che invece è gentile, positivo, ironico, irriverente e si lega all’amore. Quando ho iniziato a farlo stavo leggendo L’arte di amare e mi ero innamorato. Cuori, fiori e palloncini mi divertivano, ci giocavo, erano la mia zona di confort; li facevo correndo lungo i muri, è sempre stata una gestualità più ludica. Via via mi sono reso conto che nel contesto urbano era interessante vedere questi personaggi e da un processo istintivo si è trasformato in una ricerca più progettuale e ragionata che adesso non sento più vicina come prima.
Spero che questa mostra mi apra una nuova porta per accedere a un altro pubblico. Io dipingerò sempre per me liberamente, in fabbrica e in studio, ma è importante proporre cose che mi permettano di continuare a fare questo lavoro. Purtroppo il mercato dell’arte funziona così, un artista difficilmente può essere libero di esprimersi senza considerare l’aspetto della vendita. Ho paura a mescolare queste due ricerche che, come affermiamo nel titolo della mostra, sono legate dal segno e dalla sua gestualità ma al tempo stesso rappresentano due estetiche dicotomiche, quasi inconciliabili. 

Ultimissima domanda. The sign beyond the signature racconta una decade della tua produzione in studio. Cosa ha significato per te ritrovarti in questa raccolta di opere, direi quasi autobiografiche, realizzate dal 2013 al 2023?

Sì, in effetti sono dieci anni di esperienza raccolti in un solo luogo. La visione delle opere in mostra mi ha permesso di attivare alcuni collegamenti di cui non mi ero mai accorto. Alcune pennellate si richiamano tra loro e richiamano dunque anche la memoria di quello stesso movimento, realizzato a distanza di anni. Riprendere in mano tutto il mio percorso mi ha dato l’opportunità di avere una visione d’insieme e, soprattutto, ha riattivato la voglia di sperimentare tanto altro. Poi credo che solo con questo sguardo complessivo sulla mia produzione sia possibile maturare una propria interpretazione, le opere prese singolarmente sarebbero prive di senso. La mia volontà e quella di Street Levels Gallery era comunicare un altro dei miei mondi, una dimensione sconosciuta ai molti ma che per me esiste da tempo e continuerà sempre a esistere.

© Sofia Bonacchi

L’autore

Asia Neri

Asia Neri (Firenze, 1998) è una content writer freelance che collabora con agenzie di comunicazione, giornali e riviste. Dal 2021 lavora per Street Levels Gallery come copywriter, communication strategist e project manager. Nel febbraio 2022 ha ideato per la galleria fiorentina la rassegna divulgativa Urbanscapes e da gennaio 2023 è coordinatrice di redazione del free press fiorentino Lungarno per cui cura anche l’agenda mensile e di cui è redattrice. Scrive articoli di cultura, eventi e progetti artistici anche per il Reporter e il Corriere Fiorentino. Ha lavorato come copywriter freelance per festival di musica, di cinema e di arti visive e performative. Dal 2020 al 2022 ha lavorato nell’area media di Oxfam Italia, occupandosi anche di video editing e video interviste. Nel settembre 2020 ha co-fondato il collettivo artistico Eterotopie Dissidenti di cui hanno parlato note riviste settoriali quali Artribune, Exibart, Juliet Art Magazine. Ha una laurea Triennale in Sviluppo Economico, Cooperazione Internazionale e Gestione dei Conflitti all’Università degli Studi di Firenze e attualmente frequenta il biennio in Design della Comunicazione presso ISIA Firenze.

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