Gated Urbanism: tutto quello che vorreste sapere sull’urbanistica* (*e che non vi hanno mai detto)

Gated Urbanism: tutto quello che vorreste sapere sull’urbanistica* (*e che non vi hanno mai detto)

di Francesco Caneschi

In seguito alle Rivoluzioni Industriali si svuotano le campagne e si riempiono le città, ma fino al 1867 non esisteva una disciplina che si occupasse del disegno e della gestione della città. Nasce in questo periodo la disciplina Urbanistica.

“[…] La parola urbs è una sincope della parola urbum, ossia l’aratro, strumento utilizzato dai Romani per tracciare il limite dello spazio da occupare, quando veniva fondata una città. Urbs denota e definisce tutto ciò che veniva contenuto all’interno del solco intorno al perimetro, scavato con l’aiuto di un bue sacro. In questo senso possiamo affermare che tracciando il solco veniva urbanizzato il recinto e lo spazio da questo racchiuso. Tracciare il solco era la vera urbanizzazione: un atto che trasformava uno spazio inoccupato in una urbs.”

Con queste parole Ildefonso Cerdá spiega la genesi del neologismo “urbanizzazione”. Incaricato del piano di espansione della città di Barcellona, egli inventa una disciplina e avvolge il centro città con una griglia di quadrati, estendibile all’infinito.

L’epigrafe della prima edizione del Piano Cerdá citava: «Ruralizza l’urbano, urbanizza il rurale: Repletem Terram». La doppia provocazione era mirata ad evidenziare la volontà di rendere più vivibile la città consolidata e, allo stesso tempo, di proporre una serie di tecniche per l’espansione della città nella ruralità. L’ultima frase si riallaccia a quest’ultima volontà: repletem terram vuol dire “riempite la terra”.
La scelta della parola urbs come radice etimologica della nascente disciplina, si riallaccia anche alla leggenda della fondazione della città di Roma: «Mentre Romolo stava scavando un fossato per tracciare le fondazioni delle mura cittadine, Remo ridicolizzò i lavori in corso e ne ostruì l’avanzamento; ad un certo punto scavalcò il solco oltraggiosamente e – alcuni dicono – Romolo in persona lo colpì. Alcune versioni raccontano che fu colpito da un compagno di Romolo, in tutti i modi cadde morto…»

La soluzione di Cerdà è a tutti gli effetti una riproposizione del limite delle mura della città, alla scala dell’isolato, tagliandolo seccamente su quattro fronti equidistanti dal centro del risultante quadrato; una griglia che si ripropone all’infinito, che può conquistare ed estendersi a qualsiasi geografia. Cerdà si pone anche l’obiettivo di definire “scientificamente” il nuovo oggetto di studio:

«L’Urbanizzazione è un insieme di principi, dottrine e regole mirate a definire l’ordine che gruppi di edifici dovrebbero avere per soddisfare le necessità di chi ci abita: garantire una vita confortevole, assicurare la possibilità di scambio di servizi fra le persone e il benessere in generale».

La parola urbanizzazione è intesa qui come disciplina, mentre successivamente assumerà la connotazione di fenomeno, nel momento in cui appare la definizione urbanism.
Cerdà è convinto che l’urbanizzazione precede la civilizzazione, dando per scontato che le caratteristiche della società in cui viveva fossero presenti anche in contesti precedenti.
Questo collegamento tra civilizzazione e recinto, che per Cerdà appariva sillogistico e positivo, era stato inteso un secolo prima esattamente al contrario, da Rousseau, che aveva intuito la problematicità del recinto:

«Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”»

A distanza di un secolo dalle parole di Rousseau, Cerdà capovolge l’intendimento del recinto per esaltare l’urbanizzazione rispetto allo “stato di natura”.
Nel libro “Teoria Generale dell’urbanizzazione” di Cerdà, si riscontra una certa ingenuità riguardo l’analisi dello sviluppo della sedentarietà e quella relativa ai contesti urbani nelle varie civiltà antiche, sfiorando una narrativa fiabesca. In questa narrazione la colonia di umani, che scesi a valle dalla montagna viene attaccata da bestie feroci, riesce a superare l’orribile catastrofe dell’attacco spietato decidendo di costruire un muro.
Seppur in un contesto di ambiguità e imprecisione sia storica che antropologica, nella fiaba della colonia di Cerdà emerge una dualità dell’urbanistica che permane al giorno d’oggi: il disordine e la spontaneità dell’assembramento di umani e la tendenza a voler ordinare questo gruppo di abitazioni.
La dicotomia ordine/disordine appare anche nell’antologia “L’Urbanisme. Utopie e réalités”, affiancata dall’altra dicotomia fondamentale: città e campagna.
Queste due dicotomie, città-campagna e ordine-disordine, sono il frutto delle contraddizioni della nuova società industriale.
Le soluzioni e le ipotesi che si avanzano in questa fase, come tentativi di risolvere questa coppia di dicotomie, fra igiene e controllo strategico, si consolideranno nella disciplina fino ai giorni nostri.
La concentrazione inedita di persone porta all’esigenza amministrativa di controllare la popolazione. È così che Hausmann, a partire dalla metà del XIX secolo, inizia a modificare la città di Parigi, in accordo con Napoleone III. Nel 1830 Parigi aveva ospitato la Rivoluzione di Luglio e, nel 1848, le rivolte che attraversarono l’Europa. In questo contesto di inquietudine civica, in seguito al plebiscito che consacra imperatore Napoleone III, si collocano gli interventi Haussmanniani:

«Raddrizzando le strade, Haussmann rese più difficile l’erezione di barricate. Nel viale oggi chiamato Boulevard de Sébastopol, egli richiese agli ingegneri di calcolare larghezza ed estensione dei rettilinei, cosicché, durante le insurrezioni, i cannoni trainati da cavalli potessero spostarsi in file di due, facendo fuoco sopra le case, nelle strade adiacenti. Questo fu un punto di svolta nella relazione fra ingegneria civile e militare. Nell’antichità ci si preoccupava di fortificare il perimetro della città. Le mura medioevali erano più spesse possibile per resistere le incursioni nemiche. Le mura Rinascimentali, come quelle di Palmanova, erano disegnate per resistere al meglio i colpi di cannone; erano mura disegnate per controllare le porte ed il perimetro della città. Il potenziale nemico di Haussmann, al contrario, era già dentro le mura.»

L’operato di Haussmann, con gli sventramenti finalizzati a garantire una migliore circolazione militare e il controllo delle rivolte, propone anche un altro dispositivo di controllo, già adottato all’inizio del secolo negli Stati Uniti, la zonizzazione, ossia la segregazione in nome dell’ordine. «Nel rifacimento di Parigi di Haussmann, fra il 1850 e il 1860, la mescolanza delle classi sociali venne ridotta in maniera pianificata».
Lo studio, all’interno di una società, della punibilità e della dismissione di sommosse all’interno della società stessa, affiancate dalla separazione dei gruppi di individui in classi, riporta alla mente le riflessioni di Foucault espresse in “Sorvegliare e punire”. Nel testo viene ripercorsa la nascita delle “discipline”, che l’autore vede coincidere con lo sviluppo industriale, nel momento in cui l’efficienza diventa un concetto economico e politico. L’efficienza in fabbrica, in ospedale, a scuola e in prigione, garantisce il massimo risultato e, allo stesso tempo, il massimo controllo.

«Le discipline, organizzando le “celle”, i “posti”, i “ranghi”, fabbricano spazi complessi: architettonici, funzionali e gerarchici nello stesso tempo. Sono spazi che assicurano la fissazione e permettono la circolazione; ritagliano segmenti individuali e stabiliscono legami operativi; segnano dei posti e indicano dei valori; garantiscono l’obbedienza degli individui, ma anche una migliore economia del tempo e dei gesti. Sono spazi misti: reali perché determinano la disposizione delle costruzioni, delle sale, dell’arredamento, ma ideali poiché su queste sistemazioni si proiettano caratterizzazioni, stime, gerarchie.»

La disciplina è anche l’elemento indispensabile dell’esercito, è una caratteristica militare. Foucault continua affermando che la combinazione di forze è assicurata da delle “tattiche”, e che «la tattica è senza dubbio la forma più elevata della pratica disciplinare».
Il separare è un elemento fondamentale delle discipline: serve a studiare le parti, a renderle docili, divide le funzioni e le rende efficienti. In questa direzione viene elaborato il principio di “clausura”: «[…] la specificazione di un luogo eterogeneo rispetto a tutti gli altri e chiuso su sé stesso. Luogo protetto dalla monotonia disciplinare.».
Il secondo principio è quello della localizzazione elementare o quadrillage: «Ad ogni individuo, il suo posto; ed in ogni posto il suo individuo. Evitare le distribuzioni a gruppi, scomporre le strutture collettive; analizzare le pluralità confuse, massive o sfuggenti. Lo spazio disciplinare tende a dividersi in altrettante particelle quanti sono i corpi o gli elementi da ripartire. Bisogna annullare gli effetti delle ripartizioni indecise, la scomparsa incontrollata degli individui, la loro diffusa circolazione, la loro coagulazione inutilizzabile e pericolosa; tattica anti-diserzione, anti-vagabondaggio, anti-agglomerazione.».
Non è certo se Foucault fosse a conoscenza del piano di Cerdà per Barcellona, ma la coincidenza del principio di quadrillage con il disegno a quadretti della città di Barcellona è sconcertante.
Se per Haussmann le scelte sulla gestione della città erano studiate appositamente da una élite per il controllo della massa, quindi con intenti manipolatori, anche in esperienze non espressamente manipolatorie si ricade spesso nell’ideologia. Come scrive Choay:

«[…] l’idea stessa di un’urbanistica scientifica costituisce uno dei miti della società industriale. All’origine di ogni proposta di assetto, dietro le razionalizzazioni o il sapere che pretendono di farla passare come verità, si celano tendenze e sistemi di valori.»

L’urbanistica diviene dunque la scienza con cui si amministra e si disegna l’assetto urbano e civile, uno strumento per il disegno della società/città, al cui interno nascono i movimenti che vogliono sovvertire l’ordine, che dunque vanno controllati.
E qui subentra il terzo principio identificato da Foucault, che definisce un apparato disciplinare:

«La regola delle ubicazioni funzionali, nelle istituzioni disciplinari, va codificando, a poco a poco, uno spazio che l’architettura lasciava in generale disponibile e pronto a diversi usi. Vengono definiti determinati luoghi per rispondere non soltanto alla necessità di sorvegliare e di interrompere le comunicazioni pericolose, ma anche per creare nuovi spazi.»

Questa regola consiste in quella pratica dello zoning, o zonizzazione, sviluppata nelle metropoli per il controllo delle rendite fondiarie e delle masse. Ingenuamente adottata dal Movimento Moderno e nella Carta di Atene, lo zoning è ancora oggi una tecnica in voga. Questa tecnica si sviluppò in nome del nuovo oracolo della architettura-macchina, del progresso e dell’efficienza. La disciplina dell’urbanistica è di fatto un potere disciplinare fin dagli albori:
«[…] il potere disciplinare è un potere che, in luogo di sottrarre e prevalere, ha come funzione principale quella di “addestrare” o, piuttosto, di addestrare, per meglio, prelevare e sottrarre di più. Non incatena le forze per ridurle, esso cerca di legarle facendo in modo, nell’insieme, di moltiplicarle e utilizzarle». La messa in pratica di una disciplina necessita innanzitutto il controllo, per poter conoscere e raffinare le tecniche della stessa. Questi punti di controllo, questi “osservatori” si rifanno ad un diagramma o un modello, che è il campo militare, dalla cui iniziale forma quadrata si sviluppano un’infinita serie di perfezionamenti, ma sempre con il potere al centro. «Il campo militare è il diagramma di un potere che agisce per mezzo di una visibilità generale.»
La visibilità generale nella Parigi di Haussmann serve non più a difendersi da ciò che sta fuori il recinto, ma soprattutto a proteggersi da ciò che sta dentro. «[…] un’architettura che non è più fatta semplicemente per essere vista (fasto dei palazzi), o per sorvegliare lo spazio esterno (geometria delle fortezze), ma per permettere un controllo interno, articolato e dettagliato, per rendere visibili coloro che vi si trovano».
Se nelle prigioni sono «le pietre che possono rendere docili e conoscibili», nel rinnovamento urbano è il disegno che può rendere docili.
Il limitare e il confinare non possono essere liquidati come esclusivamente negativi. Le nostre individualità e le nostre conoscenze sono prodotte da una serie di dispositivi e di discipline, che con le loro tecniche di restrizione di campo ci permettono di progredire con più efficacia e meno rischi. È però indispensabile capire in che proporzione siamo noi a produrre dispositivi e discipline oppure le discipline a produrre noi.
Dobbiamo analizzarle per capire se con un muro ci stiamo difendendo oppure ci stiamo isolando, per capire se stiamo riducendo la nostra principale virtù di essere umani che è la socializzazione. Torna alla mente il concetto di “esclusione costitutiva” di Chantal Mouffe e Ernesto Laclau:

«Il “popolo” non è una data popolazione. Esso, piuttosto, è costituito dalle linee di demarcazione che implicitamente stabiliamo. […] Infatti, quando la lotta per decidere chi debba appartenere al “popolo” si fa più intensa, un gruppo contrappone la propria versione di “popolo” a chi è fuori, a coloro che si ritiene minaccino “il popolo” o si oppongano alla versione di “popolo” proposta. Così, abbiamo:

A) coloro che tentano di definire il popolo (un gruppo molto più ristretto del popolo che tentano di definire);
B) il popolo definito (e demarcato) nel corso di questa scommessa discorsiva;
C) un gruppo di persone che non sono parte del popolo;
D) coloro che tentano di affermare che pure quest’ultimo gruppo fa parte del popolo.

E anche quando diciamo “tutti”, nello sforzo di ipotizzare un gruppo pienamente inclusivo, in realtà stiamo implicitamente operando delle supposizioni su coloro che sono inclusi – e stiamo dunque pesantemente obliterando ciò che Chantal Mouffe e Ernesto Laclau hanno giustamente descritto come “l’esclusione costitutiva”, attraverso la quale si determina ogni nozione specifica di inclusione. […] Molte forme di esclusione sono messe in atto senza una piena consapevolezza, dato che l’esclusione viene spesso naturalizzata, fatta passare come “stato delle cose” e non come un problema esplicito»

Questa tendenza alla semplificazione e alla riduzione, che nel racconto di Cerdà si costitutiva nel momento dell’erezione del muro che poteva permettere la civilizzazione, è rischiosa per il fatto di diventare normalizzata, ossia di assumere la nuova condizione come “stato delle cose”, bloccando un’evoluzione che necessariamente avverrà, o sviluppata dagli individui in questione o da essi subita.
Questa normalizzazione, sia nel senso di azione che rende normale che di azione prodotta da una norma, è vissuta nei periodi di pandemia, come quella del Covid-19 o della peste. La città in pandemia viene sorvegliata completamente all’interno delle sue mura, isolando ogni individuo nella sua abitazione e registrandone i movimenti.

«Questo spazio chiuso, tagliato con esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono inseriti in un posto fisso, in cui i minimi movimenti sono controllati e tutti gli avvenimenti registrati, in cui un ininterrotto lavoro di scritturazione collega il centro alla periferia, in cui il potere si esercita senza interruzioni, secondo una figura gerarchica continua, in cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito tra i vivi, gli ammalati, i morti − tutto ciò costituisce un modello compatto di dispositivo disciplinare. Alla peste risponde l’ordine […]»

Ed è proprio la città in stato di pandemia e di emergenza, completamente sotto controllo in tutti i suoi spazi e su tutti gli individui, ad essere l’utopia della città perfettamente governata.
Questo potere di controllo, per funzionare, si basa sulla semplificazione, sulla divisione dicotomica fra un bianco e un nero, un giusto e uno sbagliato, un dentro e un fuori dalle mura. La semplificazione è necessaria per rendere comprensibile e comunicabile il più facilmente possibile un concetto. Tutti gli apparati disciplinari si basano sulla dicotomia o, come la chiama Foucault, sulla “divisione binaria” e sull’assegnazione coercitiva: «[…] la ripartizione differenziale (chi è o deve essere; come caratterizzarlo, come riconoscerlo; come esercitare su di lui, in maniera individuale, una sorveglianza costante, ecc.)»
Questa dimensione disciplinare dell’urbanistica si concretizza attraverso varie ideologie, o meglio attraverso esigenze che, per essere espletate con efficacia, si trasformano in ideologie, come quella della difesa di un territorio, dell’igiene o dell’abbellimento urbano (beautyfication).

«È interessante che l’urbanistica di oggi riveli la sua povertà concettuale di fronte a questi cambiamenti. Essa è incapace, molto più delle scienze umane, abituate a fare i conti con i propri paradigmi, di rinnovarsi, é incapace perché ha perso “epistemologicamente” il senso della realtà. Si barrica e si difende dietro statistiche, mappe, trend e flussi, ed è incapace invece di entrare nella vita fisica delle persone rispetto ai luoghi fisici della città. C’è in questa caduta di strumenti, in questa povertà intellettuale, la fine di una disciplina che si è arroccata dietro un tecnicismo miope e che non ha mai voluto diventare una “scienza umana”.»

Ma l’estensione delle problematiche della disciplina urbanistica non si manifesta solo in tempi di pandemia o di controversie militari. La disciplina agisce anche in tempo di pace, e può manipolare anche per fini commerciali.
Per proseguire è necessario esporre la distinzione che De Certeau propone fra “tattica” e “strategia”: «[…] la strategia si manifesta quando un soggetto con volontà e potere, può essere isolato o può isolare altri soggetti in un ambiente. La strategia si manifesta quando vengono generate relazioni con un ambiente esterno all’ambiente in cui viene prodotta la strategia. La tattica invece non si basa su un ambiente di origine definita e non si manifesta come una distinzione netta dall’ambiente in cui opera. La tattica avviene dentro l’“altro”, si insinua nell’ambiente altrui frammentariamente, senza appropriarsene interamente e senza creare una distanza. La tattica non ha una base spaziale su cui capitalizzare. La strategia è una vittoria dello spazio sul tempo. La tattica al contrario, poiché non si basa su un luogo, dipende dal tempo; la tattica è sempre allerta per opportunità da prendere “al volo”.»
La dimensione commerciale dell’urbanistica si sviluppa a partire dal dopoguerra, nel momento in cui iniziano i fenomeni della globalizzazione e dei mass media, che entrano nell’intimità delle nostre case fino al punto di dare loro la forma. Poiché questa diffusione disciplinare viene promossa principalmente da governi e amministrazioni, la definiremo come strategica e non tattica.
Come scrive Beatriz Colomina:

«Le immagini nel 1950 diventano la nuova architettura, “lo sfondo materiale indistinto dentro al quale passiamo le nostre vite”, come dissero gli Smithson. Questa è la fondamentale trasformazione urbana da inizio secolo. Se Walter Benjamin descrisse l’architettura come quella forma d’arte che percepiamo solo inconsciamente, in uno stato di distrazione, quel ruolo venne assunto dalle immagini.»

Le immagini entrano nella produzione dell’architettura, nella definizione della società e della città. Se la Prima Guerra Mondiale era stata un elemento fondamentale per l’elaborazione dell’avanguardia storica, la Seconda Guerra Mondiale è stata indispensabile per la definizione dell’architettura Americana; attraverso un complesso sistema comunicativo, essa ha permeato per la prima volta l’Europa e non viceversa. Molte delle soluzioni trovate per l’architettura americana del dopoguerra derivarono dal cambio di destinazione d’uso di fabbriche e dal cambio del target di imprese e professionisti: dal militare al civile, ossia dal militare al commerciale.
Esemplare è il Case Study House Program, intrecciato profondamente con l’industria militare e con i suoi sistemi di produzione. Durante la guerra, gli Eames crearono una compagnia per la produzione di massa di componenti militari in compensato. La loro casa, nel suddetto programma, era stata progettata assemblando profili d’acciaio scelti direttamente dal catalogo di un’industria, trasportando nell’architettura la standardizzazione tipica della produzione militare, realizzando il sogno di Le Corbusier:

«Le case devono ergersi come un oggetto unico, magari prodotte in fabbrica da macchinari… è nelle fabbriche di aeroplani che il soldato-architetto ha deciso di costruire le case: hanno deciso di costruire questa casa come un aeroplano, con gli stessi metodi di calcolo, con le stesse strutture leggere, le stesse giunzioni metalliche e gli stessi supporti tubolari.»

La standardizzazione militare nel campo civile si manifesta al suo massimo nella realizzazione dei suburbi, in particolare con la prima Levittown, costruita dall’impresa di William Levitt nello stato di New York dal 1947 al 1951, per i veterani rientrati in patria. Il sobborgo era costituito da case tutte uguali, con all’interno moderni elettrodomestici tutti uguali e finiture tutte uguali, abitate da persone con la pelle dal colore tutto uguale: bianco. Levitt, infatti, non vendeva le sue case alle persone di colore; ciononostante, venne fregiato da una copertina del TIME Magazine: illuminante è il sottotitolo della copertina: For Sale: A new way of life.

«La Comunità ha un’aria quasi antisettica. Le strade di Levittown, che hanno nomi fantastici come Satellite, Horizon, Haymaker, sono essenziali e piatte come corsie di ospedale. Come un ospedale, Levittown ha regole proprie. I recinti non sono permessi. Il prato intorno a casa deve essere tagliato almeno una volta a settimana; quando non viene fatto, i giardinieri di Bill Levitt tagliano l’erba e mandano il conto. I panni non possono essere appesi a fili ma su solo su stendini rimovibili, e comunque non durante i fine settimana e le feste.»

La nuova città, il suburbio, è come gli ospedali di cui parla Foucault: definito nei suoi utenti e regolato da norme autonome e precise. Costruito con metodi militari, perfezionati da Bill Levitt durante il suo operato nei Seabees, anagramma omofonico di CB, che stava a indicare il Construction Batallion. Il legame fra l’urbanistica e la disciplina militare si rinnova e si rafforza nel dopoguerra, mascherata dal sogno democratizzante di “una casa”, e non un appartamento, per tutti. A Levittown per tutti tranne i negri.
Anche il MOMA non mancò di esercitare la sua influenza nella guerra di immagine e ideologia che fu la Guerra Fredda, come estensivamente dimostrato da Beatriz Colomina. Esemplare è il modello della “casa per tutti a dimensione naturale”, tagliato a metà per vedere dentro, portato dal MOMA a Mosca per L’American National Exhibition, all’interno della cui cucina avvenne il dibattito chiamato poi Kitchen Debate fra Nikita Khrushchev e Richard Nixon. «La casa che fu prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale venne usata come arma nella guerra fredda».
L’urbanistica come forma di controllo durante la guerra fredda ha effettivamente avuto la sua esplosione. L’architettura comincia ad essere industrializzata e venduta come immagine, come lifestyle, come diceva un annuncio pubblicitario: After total war comes total living. Ma non solo, il potere della divisione degli imperi e delle due maggiori ideologie della guerra fredda si manifestò con il muro di Berlino, che all’interno della città si conformava come due muri “disabitati” al cui interno si trovava la striscia della morte. Le aperture non erano più sacre come per Romolo ma dei punti di controllo, i Check Point.
La scala dell’influenza della guerra fredda nell’urbanistica assunse la scala del disegno regionale:

«La paura di una guerra nucleare che rendeva le metropoli dense un bersaglio vulnerabile, fu al centro dei pensieri dei pianificatori durante la guerra fredda, sia negli USA che all’estero. Anche la grande de-urbanizzazione della Cina Maoista fu un prodotto del terrore nucleare. La dispersione dal centro ai sobborghi, facilitato dalla costruzione di grandi autostrade – come la National Defense Highway – era di più che semplicemente un favore alla General Motors: sia i produttori di automobili che gli USA stavano giocando lo stesso gioco urbano-strategico.»

Oggi, dopo gli stravolgimenti culturali e tecnologici che si sono succeduti dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’estensione del potere dell’urbanistica in ambito di controllo, di sorvegliare e punire, sono innumerevoli. «In nessun luogo l’uso politico dell’urbanistica è più lampante che in Gerusalemme e nella West Bank». Qui le forze Israeliane distruggono case quando eseguono incursioni in zone densamente urbanizzate per entrarci con i mezzi armati e carrozzati, a Gerusalemme costruiscono un anello di insediamenti come se fosse un muro, per controllare la città e impedire potenziali divisioni. Ma non solo. Oggi le informazioni che apparati disciplinari come l’urbanistica o l’esercito devono raccogliere per costituirsi in quanto discipline, possono avvalersi di mezzi tecnologicamente avanzati come i satelliti. Eyal Weizman, nel libro Forensic Architecture, fa notare come la compartimentazione delle informazioni raccolte dai satelliti possa far emergere problematicità nella geopolitica mondiale.
La risoluzione delle immagini satellitari consultabili dal pubblico, raccolte dai satelliti americani, è minore in Israele rispetto agli altri Stati del mondo.
La mancata equivalenza delle informazioni concesse al pubblico rispetto a quelle raccolte da una qualsiasi amministrazione in questo campo, consente la “weaponizzazione” di queste informazioni. Il pubblico non può accedere a queste informazioni riservate, neanche nel caso emerga il dubbio di crimini di guerra. Come mai prima di adesso «nei conflitti contemporanei sia le uccisioni che le investigazioni sono pratiche basate sulle immagini».
Si ritorna dunque alla necessità di osservare protetti, prima dalla posizione privilegiata delle mura della città, poi dal panopticon e ora dal satellite e dalle telecamere.
Le mura della città sono diventate le telecamere della città.
A Londra, in seguito agli attentati del 2005, è stata realizzata un’estensiva rete di telecamere che potenzialmente può tracciare gli spostamenti di un cittadino a partire dal centro con un raggio di chilometri. Foucault scriveva a proposito del Panopticon:

«[…] il principio della segreta viene rovesciato: […] La piena luce e lo sguardo del sorvegliante captano più di quanto non facesse l’ombra, che alla fine, proteggeva. La visibilità è una trappola. […] Se i detenuti sono dei condannati, nessun pericolo di complotto, […] se si tratta di ammalati, nessun pericolo di contagio; di pazzi, nessun rischio di violenze reciproche; di bambini, nessuna copiatura durante gli esami, nessun rumore, niente chiacchiere, niente dissipazione. Se si tratta di operai, niente risse, furti, coalizioni, nessuna di quelle distrazioni che ritardano il lavoro, rendendolo meno perfetto o provocando incidenti. La folla, massa compatta, luogo di molteplici scambi, individualità che si fondono, effetto collettivo, è abolita in favore di una collezione di individualità separate. […] Di qui l’effetto principale del Panopticon: indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere. Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua la sua azione».

Londra, come molte delle metropoli in cui abitiamo, sono delle Panopticity, in cui «L’apparato disciplinare perfetto avrebbe permesso, con un solo sguardo, di vedere tutto in permanenza».
Viviamo in un mondo, il nord globale, estremamente disciplinato in moltissimi aspetti della nostra vita. Il dispositivo panottico alla base degli apparati disciplinari avvolge interamente la nostra vita in aree urbane. Accettiamo questa condizione anche grazie ad un intelligente scelta di parole, in cui la parola “difesa” è stata sostituita con la più confortevole parola “sicurezza”:
«Un indice della nuova e attiva caratteristica costituente della guerra è la scelta politica di sostituire “difesa” con “sicurezza”. Scelta che gli USA hanno promosso come elemento della guerra contro il terrorismo a partire dall’11 settembre 2001. Nel contesto degli affari esteri degli USA, il passaggio da difesa a sicurezza ha significato il movimento da una posizione reattiva e conservatrice verso un atteggiamento attivo e costruttivo […]». Per parlare delle relazioni dell’urbanistica con gli apparati militari non basterebbe una tesi di dottorato, figuriamoci un solo articolo.
Questo testo è nato sottoforma di capitolo di un dottorato che studia gli interventi temporanei di urbanistica e architettura come forme di produzione collettiva dello spazio. È atto a far emergere l’antitesi di quello di cui si vuole parlare, parla dell’urbanistica chiusa in antitesi all’urbanistica aperta.
Gli stessi interventi temporanei di architettura e urbanistica che vengono proposti oggi in seguito alla pandemia o ad una crisi economica, possono diventare una forma di controllo, soprattutto economico, nei termini di rendita fondiaria e di rinnovamento urbano. Per questo è necessario studiare gli strumenti dell’urbanistica e dell’architettura, mentre portano ancora la loro carica innovativa: prima che vengano appropriati e regolamentati dalle istituzioni o dalle aziende. Bisogna investigare, esattamente come fanno i componenti di Forensic Architecture, per capire quali e dove sono i limiti di ogni approccio e quali le loro potenzialità. Gli interventi temporanei di urbanistica e architettura sono importanti per incontrare soluzioni di riappropriazione dello spazio pubblico, sia fisico che concettuale, in seguito alla pandemia.
Durante questa crisi è stato necessario sorvegliare.
Ma quando questa crisi sarà finita, o perlomeno normalizzata, gli strumenti di cui avremo bisogno non saranno più quelli di controllo, ma di generazione di idee e di nuovi comportamenti.
Gli strumenti di cui avremo bisogno dovranno essere finalizzati a creare una nuova normalità; avremo bisogno di immaginare nuovamente il nostro habitat urbano. Le Corbusier parlava di architetti-soldati ma noi, oggi più che mai, abbiamo bisogno di architetti-cittadini, buoni cittadini ma non docili, cittadini che capiscano l’importanza di una urbanità variegata che premi e favorisca la diversità e non l’omologazione, la promiscuità sociale e non la segregazione.
Abbiamo bisogno di architetti-cittadini che non vogliano costruire muri ma che trovino gli strumenti immaginativi per costruire un mondo in cui sentirsi sicuri a contatto con l’”altro” che vive accanto a noi.
Abbiamo bisogno di un’architettura e un’urbanistica non finalizzate a dividere le persone con dei muri ma che le unisca nello spazio pubblico.

L’autore

Francesco Caneschi

Francesco Caneschi è dottorando in Architettura Radicale e Urbanistica Incrementale, si è formato e lavora tra Portogallo e Italia. Ha lavorato per Aires Mateus a Lisbona, ed ha costruito istallazioni nello spazio pubblico con ab-USO e Orizzontale. Ha scritto di turistocrazia, beni comuni e urbanistica tattica. È curatore dell’archivio di Titti Maschietto e recentemente ha co-fondato Orama, un laboratorio che realizza ed unisce design e architettura. Il suo dottorato è finanziato dalla FCT – Fundação para a Ciência e a Tecnologia.

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