
“Marco Proserpio è fuori: intervista ad un regista situazionista”
di Tiziano Tancredi
Quali sono gli spunti e le modalità di produzione che sostengono la visione di un regista? A quale serbatoio di immagini e concetti attinge per realizzare i suoi film? E quanto l’approccio ad un processo creativo governato dalle leggi del caso, situazionista, non è segno di disorganizzazione bensì una maniera per inebriarsi delle contraddizioni della vita?
Con Marco Proserpio, regista classe 1984, abbiamo ripercorso alcuni dei momenti salienti del suo percorso: dagli inizi a Mtv Brand New a NOI FUORI dei Ministri, dalla collaborazione con il rapper Ensi al recente documentario su Noyz Narcos, Dope Boys Alphabet, dai Canemorto sino ad arrivare a The man who stole Banksy. Sempre consci che “spesso la realtà è ancora più fuori di testa di ogni più alta fantasia”.
Ciao Marco, come è ormai consuetudine per i nostri affezionati lettori, di tanto in tanto mi fa piacere ricordare in quali occasioni ho conosciuto le persone che intervisto. Giusto per svelare un po’ il dietro le quinte. Correva l’Anno Domini 2017 ed insieme a Loris Gentile, Alvin Spazio e Matteo Pansana eri stato chiamato da Christian Omodeo di Le Grand Jeu a girare dei video all’interno del Louvre in cui alcuni artisti dell’arte urbana (C215, JEF AEROSOL, Madame, Levalet e Blek Le Rat) approfondivano il rapporto tra la loro produzione artistica per strada e il patrimonio museale.
Sempre nello stesso anno, scrivesti una piccola antologia per Rock.it con un elenco di 5 video musicali low budget che avevi trovato geniali. Anche tu ti sei cimentato, e non smetti di farlo, in questa tipologia di produzione. Ad esempio mi ricordo la tua firma (insieme a Jacopo Farina per Sterven Jonger) nel 2011 per il video NOI FUORI dei Ministri in cui c’è una quantità di oggetti di ogni sorta da far invidia a qualsiasi brocante parigina. Come ti venne in mente l’idea per quel video sicuramente molto strutturato? Ed invece qual è il video più pazzo a basso budget che hai mai girato?
Mi ero appena trasferito all’ultimo piano di una casa di Milano nord, in via Vallazze 64.
Già all’epoca ero un accumulatore e la maggior parte degli oggetti del video li avevo con me in degli scatoloni. La casa era completamente vuota ad eccezione di un materasso e di questi scatoloni appunto, Federico Dragogna, chitarrista e autore dei Ministri era mio dirimpettaio sul pianerottolo del palazzo, al quinto piano senza ascensore.
La proposta di fare il video nacque sicuramente dalla reciproca stima, di più, da un’amicizia. Volevamo fare un videoclip che andasse in direzione contraria rispetto alla classica rappresentazione un po’ leccata del gruppo rock nei video italiani dell’epoca, e quella casa vuota mi sembrava una location fantastica. Comprammo quindi decine di metri di carta da parati e cominciammo ad applicarle alle pareti in modo da creare diversi ambienti.
Le frasi in sovrimpressione e quella linea di racconto sono un’idea di Federico, e così molte altre cose presenti nel video, facemmo tutto insieme, tra amici, giocando per giorni con quello che c’era in quella casa vuota ed illuminando i set con qualche vecchia lampada recuperata da altri appartamenti.
Il processo di fare un video per una major (Universal Music all’epoca) era sempre molto diverso da quello applicato da noi in quella situazione, era tutto molto più ufficiale, credo che per questo il video si fece notare. Cambiando il processo cambiò di molto il risultato.
Una volta uscito, dal Corriere della Sera ci chiesero delle informazioni riguardo al video ed una mini biografia.
Trovando le nostre biografie poco interessanti, inventammo la biografia di questo maestro del cinema danese, tale Sterven Jonger, nome preso da un pacchetto di sigarette che avevo in quel momento sul tavolo della mia stanza, che recitava appunto: rockers sterven jonger (Il fumo uccide i giovani). Sterven Jonger era un nome killer per un regista danese dalla dottrina punk e spietata.
Lo scherzo funzionò per qualche tempo.
È difficile definire cosa è low budget. Dipende da cosa vuoi realizzare. Per alcune cose servono tanti soldi, per altre un’idea, una camera e poco più. Ho fatto tante pazzie in questi anni non supportate da soldi, ricordo con un ghigno quando comprai a pochi euri un Ciao Piaggio degli anni ‘70 in Barona, a sud di Milano, per poi ricoprirlo di led e, nella mia testa, farlo sembrare una sorta di stella luminosa che vagava per la città. Doveva essere un video di Costellazioni di Le Luci della Centrale Elettrica ma non uscì mai.

MINISTRI - NOI FUORI -> Clicca qui
Fermo restando che continui a realizzarne tutt’oggi, a livello di percorso e di sviluppo, il mondo dei video musicali è il primo con cui ti sei interfacciato in assoluto o hai sperimentato anche in altri ambiti meno conosciuti ai più? Quando e perché hai preso in mano per la prima volta una cinepresa? Con senno di poi, è possibile che i video musicali siano stati una palestra per poi maturare narrativamente su progetti più impegnativi?
Ho cominciato a lavorare in televisione, a MTV Brand New, un programma che c’era di notte, prima dell’esistenza di YouTube, che faceva vedere i videoclip che MTV di giorno non passava o non poteva passare. Ero una sorta di runner tuttofare.
Raramente mi capitava di prendere in mano una camera se non per qualche concerto da filmare. In compenso ho visto in sala montaggio milioni di videoclip in quel periodo.
Quindi ad un certo punto, complice la mia amicizia con alcuni musicisti, ho cominciato a farli, spesso non usando le camere che si usavano a lavoro, ma altre che compravo ai mercatini tipo Sony Mini DV e Hi8.
I videoclip sono stati una palestra ma anche un formato che proprio mi piaceva e mi permetteva di lavorare con artisti che stimavo, oltre che di avere una colonna sonora per delle idee che avevo.
Prendendo spunto dalla tua ultima frase, dal punto di vista creativo, quante e quali volte hai trovato che un’idea pregressa, che ti frullava per il cervello da tanto, potesse sposarsi con una musica che dovevi “raccontare” attraverso un video? Mi sembra che i tuoi video più che “illustrare” didascalicamente una musica, ne catturino e ne moltiplichino l’atmosfera.
Mi capita spesso di avere delle idee non ancora definite che poi finiscono nel retro della mia testa o in qualche appunto su un foglio in un cassetto. Poi un giorno mi contattano, mi propongono di fare un video per una canzone, mi mandano la traccia.
A quel punto la ascolto a ripetizione in maniera davvero ossessiva. Durante questi ascolti prendo appunti circa le immagini che la canzone, il suono e il testo mi suggeriscono, navigo su internet facendo ricerche bizzarre e spesso in questo processo cado di nuovo in idee pregresse che in quel momento mi sembrano valide per l’immaginario che sto descrivendo. A quel punto prendo la mia idea pregressa e la modifico cercando di cucirla sul pezzo.
L’importante è fare qualcosa che valorizzi il pezzo e anzi che lo aiuti a sgomitare e farsi notare in mezzo agli altri.
Entriamo adesso nel vivo di alcune tue produzioni.
Nel 2019 hai lavorato per il rapper Ensi creando due video per l’album Clash. DENG DENG feat Patrick Benifei, realizzato nei pressi di Via Padova a Milano, è un video dal ritmo sostenuto in cui si alternano immagini di strada con taglio documentaristico girate con una videocamera 16mm e foto su pellicola del fotografo Guido Borso. HEART OF CLASH (VITA INTERA – FRATELLO MIO – COMPLICATO) è invece una produzione in cui tecniche diverse (video, 3D, foto su pellicola sempre di Guido Borso) raccontano i ritmi diversi dei tre pezzi di Ensi, avendo come unico comune denominatore le strade di Palermo.
Individuando una coerenza autoriale tra i due video, cosa lega dal punto di vista narrativo Via Padova con Palermo? Com’è nata la collaborazione con Guido Borso che hai coinvolto in entrambi i video? Quali sono state le tue fonti di ispirazione per la commistione tra video e fotografia analogica?
La cosa che lega i due video è la modalità di produzione. Anziché andare su un set o in una location e filmare il video in un giorno, con uno storyboard e una troupe siamo andati in via Padova e a Palermo per una decina di giorni, senza uno script, trovando in giro o tramite amicizie i nostri protagonisti, girando in 16mm ma anche con iPhone o con quello che ci capitava. L’idea era anche, in un momento in cui si abusava della parola street e dove street spesso erano pistole vestiti e cazzate, quella di fare un video street nel senso che io e Guido siamo stati per la street, per giorni, incontrando gente, che ci portava a situazioni altre rispetto a quanto preventivato.
Mi è sempre piaciuto accostare più qualità di camera, lo faccio da quando ho iniziato e avevo una mini DV Sony TRV900 (che ho ancora) e una Sony digitale prestata.
Ad un certo punto ho approcciato il 16mm e ho deciso che volevo girare così tutto quello che potevo.
È stato poi naturale affiancargli altre camere. Il lavoro di Guido lo seguo da più di dieci anni ormai e ci siamo sempre supportati, questa è stata la nostra prima vera collaborazione ufficiale. Le sue foto in questi video sono fondamentali, importanti tanto quanto la parte video, se non di più, perché immortalano un dettaglio che ti dice sempre qualcosa in più di quella situazione, di questi personaggi, di questa storia se così si può definire.
Non appena ho letto street nella tua risposta, in automatico (visto che praticamente conosco il testo a memoria) il mio cervello l’ha pronunciato come nel video Toys dei Canemorto che hai realizzato con loro in occasione della loro mostra omonima tenutasi a Viafarini a Milano nel 2016.
Oltre ad alcune barre mitiche (“Un’enciclopedia di stile, chiamaci Treccani” “La street art a Milano? Panettoni e pinguini” “Sfatti a terra come il Cristo morto del Mantegna”), quando lo vidi mi colpì il ritmo incalzante e il crescendo del primo minuto oltre a quell’effetto incandescente sull’apparizione della Txakurra (tra l’altro come lo realizzasti materialmente?). Come nacque la sceneggiatura e l’idea di quel video nel contesto rovente della mostra Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano a Bologna? Ed in generale cosa ti lega tanto ai Canemorto, tanto che poi un paio di anni più tardi girasti anche CANEMORTO X STUDIOCROMIE – Golden Age?
Era il 2016 e da tempo ero incuriosito da queste teste di cane che vedevo sui muri di Milano e soprattutto su quelli delle arterie stradali che da Milano ti portano fuori città.
Toys è stata la nostra prima collaborazione, in quel momento stavo girando il mio primo documentario The man who stole Banksy, che parlava di opere realizzate in strada illegalmente che venivano, in diversi modi, rimosse e conservate o rivendute.
Nelle ricerche condotte con l’aiuto di Christian Omodeo, un giorno sono entrato nello studio di un noto restauratore bolognese e ho trovato quest’opera di Canemorto. Un muro a cui con la tecnica dello strappo era stata asportata una sezione sottilissima contenente un loro disegno. Camillo Tarozzi, il restauratore, decantava le lodi dell’opera ritrovata.
Questo footage che avevo girato ci ha dato la possibilità di intervenire in qualche modo in quel dibattito, seppure con il loro solito cinismo cartonesco, ma basandoci su fatti realmente accaduti. Qui il corto circuito che ci piaceva. Ed eravamo tutti e siamo fan del rap quindi i ragazzi hanno voluto registrare durante quelle session notturne, regalandoci barre che sono entrate nella storia, come giustamente ricordavi.
Il crescendo iniziale a cui ti riferisci è un’atmosfera da tensione tipica da video writing che mi sembrava funzionasse in contrasto con i loro personaggi e con quanto accade poco dopo, dove al posto di una action si vede una sorta di videoclip rap girato durante una action.
La Txakurra in quel caso fu un esperimento di 3d realizzato con il giovane e talentuoso Matteo Toffalori.
Con i Canemorto la collaborazione è continuata e continua, credo ci unisca l’attitudine oltre all’amore per la pittura all’aria aperta.
Visto che lo hai evocato, veniamo al documentario The man who stole Banksy del 2018 da te diretto con la co-sceneggiatura di Christian Omodeo e Filippo Perfido, presentato al Tribeca Film Festival di New York in anteprima mondiale. Attraverso la raccolta di footage del 2007 e riprese compiute in Palestina nel 2012, nel 2015 e nel 2017, passando per Londra, Copenaghen, Vienna sino ad arrivare a Bologna, il film prende come pretesto lo stacco del celeberrimo graffito di Banksy “The donkey with the soldier” per arrivare a trattare tematiche di vitale importanza a livello culturale per la società occidentale e non solo. Il film infatti in senso prismatico mette in scena molteplici punti di vista da parte di addetti ai lavori del mondo dell’arte o meno, legati al senso della Memoria e la preservazione del contesto, o anche su cosa possa essere Arte o Vandalismo.
Che ricordi serbi di quell’avventura che ha avuto una gestazione così lunga? In termini di scrittura della sceneggiatura, a che punto hai capito che direzione avrebbe preso definitivamente il documentario e in che termini ti sono stati d’aiuto i due co-sceneggiatori? Strategicamente una volta mi confidasti che la bellezza dei documentari è che con un budget più basso possono competere con gigantesche produzioni hollywoodiane nell’ambito dei festival di cinema. Ti è mai venuta voglia di girare un film con degli attori che non fosse un documentario?
I ricordi sono moltissimi essendo la gestazione del film durata 6 anni.
Diciamo che nella storia ci sono caduto per caso, ho incontrato Walid, taxista palestinese, per strada, poco distante dai tornelli del muro di separazione. Mi ha subito chiesto se fossi interessato all’arte. Se conoscessi Banksy. Mi raccontò quindi di aver rimosso un muro da diverse tonnellate, su cui c’era questo stencil monocolore di un soldato che controlla i documenti di un asino. Me lo mostrò, quello che mi aveva raccontato era vero. Walid non conosceva nulla di Banksy, sapeva solo che valeva dei soldi “nel nostro mondo”. E stava cercando di venderlo su ebay. A 100.000 dollari.
Da quel momento e per 6 anni ho seguito questo enorme pezzo di cemento, cercando di raccontare quello che mi sembrava un cortocircuito interessante che coinvolgeva vandalismo, politica, case d’asta, questione palestinese e simboli che in diversi paesi hanno diverse interpretazioni.
I 6 anni in cui l’ho seguita sono stati pieni di zaini in spalla, treni, voli rimandati, rifiuti, chiacchiere da bar, lacrimogeni e troupe molto strette, solitamente 2 persone. I due co-autori sono stati di fondamentale importanza in maniera differente. Christian Omodeo fu uno dei primi a interessarsi a questa storia. Anzi fu letteralmente il primo che mi scrisse quando pubblicai il finto trailer del documentario, che in realtà ancora non esisteva. Ci siamo subito trovati molto bene personalmente e professionalmente e avevo proprio bisogno di una persona come lui, che battezzasse o al contrario smontasse, con credibilità e conoscenza del mondo dell’arte, delle parti di racconto e delle tesi, delle domande che mi facevo mentre filmavo questa storia.
Filippo Perfido è invece intervenuto sul finale del film, aiutandomi in maniera decisiva nella scrittura dei voice over e nella sua traduzione, così come nella parte di postproduzione e uscita del film.
Certo, il documentario ha regole con maglie più larghe del cinema ed ha evidentemente costi molto minori, ma non è per quello che me ne occupo. Spesso storie come questa sarebbero impossibili da sceneggiare, perché piene di dettagli e contraddizioni, elementi di realtà che la lavorazione di uno script non potrebbe considerare nella sua interezza. O, se vogliamo dirla così, spesso la realtà è ancora più fuori di testa di ogni più alta fantasia.
Roma, 2007. Appena fuori dal campetto del mio liceo, il Mamiani, durante l’ora di educazione fisica il mio amico Vincenzo ascoltava con le cuffiette una musica da un cd-rom portatile. Presissimo. Me le passa e scopro un gruppo che è stato fondamentale per buona parte della mia generazione. Il TruceKlan e con loro Noyz Narcos.
Pezzi come In The Panchine – Deadly Combination feat Noyz Narcos o Non Dormire di Noyz Narcos feat Cicoria hanno scaldato cuori e atmosfere a feste, riunito persone e definito un immaginario estetico e stilistico intorno ad una musica che è un vero e proprio culto per gli appassionati di rap ma non solo.
Noyz Narcos – Dope Boys Alphabet, il tuo ultimo docufilm (2021), traccia la parabola di Emanuele Frasca in arte Noyz Narcos dagli esordi con i TruceBoys, passando per i TruceKlan sino all’ultimo album Virus. Quanto ti sei sentito fortunato a fare digging dentro ai video inediti del Noyz? Quando e come hai scoperto la musica Truce? E in cosa secondo te la scena romana dei primi anni 2000 si differenziava da quella milanese?
Sono stato molto fortunato a poter fare questa ricerca con il diretto interessato, Emanuele Frasca in arte Noyz Narcos. Per quanto mi riguarda il miglior rapper italiano ed un artista unico e incredibile che non ha mai spostato la sua traiettoria per motivi di mercato. Lui mi ha contattato e all’appuntamento mi ha mostrato una vecchia scatola di Nike con una ventina di nastri mini dv, filmati principalmente da lui stesso, nell’arco di anni. Da prima degli esordi fino al 2012 diciamo. Il materiale era clamoroso e da lì ho cominciato a scrivere mail contattando ogni possibile proprietario di video su di lui e sul Truceklan che ritenevo rilevanti, così come video che ormai esistevano solo su YouTube in qualità infime a furia di ricaricarli.
La musica dei Truceklan l’ho scoperta appena uscita, grazie ad amici che me l’hanno fatto ascoltare. All’epoca eravamo dei giovani punk e quello ascoltavamo principalmente. Di rap ascoltavamo poco, i Beastie Boys o quelle cose che avevano oltreoceano una qualche componente punk/hardcore in cui ci riconoscevamo. Poi arrivò il Truceklan e cambiò tutto per noi. Fu senza ombra di dubbio il primo gruppo rap in Italia che ascoltai a ripetizione. Il loro linguaggio divenne il nostro e la loro estetica era la nostra e quella di gruppi che già seguivamo. L’innamoramento fu letale, ancora oggi seguo il percorso di Noyz Narcos, il suo esponente più talentuoso e quello che ha portato questa cosa ad un altro livello. Intorno al 2008/2009 mi capitò di lavorare, tramite il regista e amico Fabrizio Conte all’epoca meglio noto nelle strade di Milano come Cologno Scorsese, di lavorare con i Club Dogo. Era il periodo di Dogocrazia e della loro svolta ancora più club. Io ero una sorta di runner aiutante tuttofare e all’inizio l’impatto fu forte. Era un immaginario molto diverso dal mio, dal nostro, erano molto più zarri. Ma me ne innamorai comunque velocemente e ho dei bei ricordi di quelle produzioni mezze deliranti e sempre circondate da personaggi clamorosi e street legends che avevo conosciuto solo tramite racconti. Quest’asse Roma-Milano, quest’accoppiata, è quella che ancora oggi per me ha influenzato più di tutte le altre realtà il rap italiano.

Sei un tipo molto riservato ma io ci provo. Spoiler di futuri progetti? Cosa bolle in pentola?
Sì solitamente non amo molto parlare di una cosa pubblicamente finché non è terminata. Ti posso anticipare che sto lavorando a diversi progetti, tra cui un nuovo capitolo della mia collaborazione con i Canemorto.