
Nascondersi. Intervista ad Alberto Ruce
di Lucrezia Cirri
Classe 1988, Alberto Ruce è un artista urbano nato in Sicilia, in un paese vicino a Catania. Autodidatta, si avvicina al tagging e ai graffiti durante l’adolescenza. A diciotto anni si trasferisce a Parigi, città piena di stimoli, dove per tre anni studia disegno, pittura e prospettiva all’Atelier des Beaux-Art. È convinto che si dipinga “col pennello, ma soprattutto con la testa” e che l’arte debba essere per tutti; ama il Mediterraneo e il suo stile, col tempo, dal lettering si è avvicinato sempre più al figurativo.
Ha partecipato a residenze e festival nazionali e internazionali. Fra le sue mostre personali ricordiamo 4.33 (2013-2017), Empatia (2019-2020) e il progetto Transumanze (2019).
Lo scorso giugno è stato protagonista di Oltre le mura di Sant’Orsola, progetto di riqualificazione dell’ex monastero fiorentino, a cui ha partecipato con Al di là di tutto.
Di questo e molto altro abbiamo parlato insieme a Marsiglia, dove Ruce vive e lavora, in una lunga chiacchierata davanti a un pastis.
Nel 2020 la Città Metropolitana di Firenze ha affidato alla società francese Artea la riqualificazione del complesso dell’ex monastero di Sant’Orsola, nel quartiere di San Lorenzo. Storia, filiale della società, ha dato il via al progetto di recupero con la mostra Oltre le mura di Sant’Orsola, a cura di Morgane Lucquet Laforgue, a cui hai partecipato insieme a Sophia Kisielewska-Dunbar. Dal 1 giugno al 2 luglio 2023, il complesso si è trasformato per un mese in un museo effimero, aperto straordinariamente al pubblico in attesa dell’inaugurazione del futuro Museo Sant’Orsola vero e proprio, prevista per il 2025. Come è stato partecipare a questo primo passo verso la riqualificazione?
Nel 2022 Morgane, la direttrice del museo, mi ha chiamato per propormi di partecipare a questo progetto, spiegandomi che voleva realizzarlo in un ex convento, dove si era scoperta la tomba di Monna Lisa. Mi immaginavo qualcosa di completamente diverso. Qui a Marsiglia avevo il mio studio in un vecchio convento di suore di clausura, fatto da tante piccole celle, in cui io studiavo moltissimo. Quando volevo dipingere le mie tele uscivo all’esterno, dove c’era un grande giardino con un orto condiviso con tutto il quartiere. Pensavo di trovare un ambiente simile, soprattutto pensando a Firenze. Invece, solo cemento. La mia prima reazione è stata chiedermi dove fossero gli affreschi, avevo voglia di scalfire tutto quel cemento e trovarli. Quando siamo arrivati davanti allo scavo principale, Morgane mi disse che le sarebbe piaciuto che là si trovasse il focus del mio progetto e di fare quel che preferissi: “Sta a te decidere”.
Ti ha dato molta libertà, quindi. Per Oltre le mura di Sant’Orsola tu hai realizzato un progetto intitolato Al di là di tutto che si articola nell’antica chiesa e nell’ex spezieria. In quest’ultima hai realizzato dei murales che ricordano le attività del tempo, mentre nell’altra sala hai ritratto Lisa Gherardini e sua figlia Ludovica, usando come supporto un telo di lino e lanciandoti quindi in una nuova tecnica. Come mai questa scelta?
Io per Sant’Orsola ho avuto forse la carta bianca più grande della mia vita e ne sono stato davvero contento. Tutti i progetti dovrebbero essere così. Morgane conosceva molto bene il mio lavoro – mi ha addirittura nominato dei miei murales che io avevo quasi scordato – ed era sicura della sua scelta. E io sono un grande masochista [ride, n.d.r.], quindi ho deciso di fare qualcosa che non riuscivo a controllare al 100%. I murales sono la mia zona di comfort; lanciarmi nell’installazione è stata una sfida, dovuta in parte alla voglia di spingere la mia tecnica verso un punto ignoto: da bravo writer e graffitaro, cerco sempre un po’ di adrenalina.
Quando andai a vedere il luogo per la prima volta, i miei occhi cercarono istintivamente un muro, ma senza trovarlo. La stanza sul lato destro presenta tutta una serie di colonne, uno spazio troppo piccolo per quello che volevo fare, mentre sul fondo ha una grande finestra. Avrei potuto coprirla, magari facendo un finto muro, ma non è nel mio stile: a me piace lavorare su quello che ho davvero, lasciando il supporto il più naturale possibile, senza intervenire. Ho scelto di fare l’installazione su dei teli per creare il muro che cercavo e di cui avevo bisogno. Questi mi avrebbero anche permesso di realizzare l’effetto sindone necessario a realizzare una specie di requiem per Lisa Gherardini, come era la mia prima idea. Non solo, ho anche scoperto che il convento era stato usato, in passato, come centro di accoglienza per chi fuggiva dalla guerra. Visti gli spazi enormi, le famiglie si creavano i loro propri ambienti proprio usando proprio dei teli, così da avere una loro piccola intimità. Il marito di Lisa, poi, era un mercante di lino: quello sarebbe stato il materiale più adatto per il mio lavoro, perché aveva un legame con il luogo.
In pratica hai ricostruito, nella tua opera, molti importanti momenti della storia e dell’evoluzione del convento, dalle sue origini fino ad oggi, col museo effimero. Questo dimostra quanto sia per te importante il contesto entro cui ti muovi. Non a caso, hai scelto come modelle per le tue opere tutte donne del quartiere di San Lorenzo. Come è andata la ricerca? Non deve essere stata semplice, è un quartiere pieno di gente.
Il contesto cambia l’opera. Questo è un punto importantissimo su cui riflettere. Se decontestualizzata, la pittura murales perde il suo significato.
I ritratti che ho fatto hanno un forte significato all’interno dell’ex convento, proprio perché i soggetti sono realmente una madre e una figlia. Si tratta di due donne conosciute nel quartiere, figure storiche del mercato di San Lorenzo e quindi identificabili per chi lo abita. Questo simbolismo corrisponde con la storia che volevo rappresentare: l’abbraccio madre-figlia, l’abbraccio fra Lisa e Ludovica. Allo stesso modo, le mani che ho dipinto nella spezieria sono delle donne del posto, che nel quartiere stanno scomparendo. Si fanno infatti chiamare le Sopravvissute di San Lorenzo, sono un piccolo comitato di quartiere che organizza eventi ma soprattutto si occupa di favorire l’integrazione nella zona. Le mani delle Sopravvissute scompaiono nella mia pittura proprio come stanno scomparendo gli artigiani, inghiottiti dalla massa turistica e dalle bancarelle.
Come si è svolta la ricerca e quanto tempo le hai dedicato, prima di iniziare a dipingere?
Inizio sempre abbastanza prima a fare le ricerche. In questo caso specifico sono stato fortunato, perché Morgane mi ha messo in contatto con Paola, una delle Sopravvissute. Volevo conoscere le persone, è quello che voglio fare sempre nei miei progetti: conoscere almeno la storia del posto e, se possibile, quella dei protagonisti. Mi sono anche informato su quali erbe venissero utilizzate nella spezieria del convento a scopo farmaceutico e una mattina mi sono recato al mercato per comprare quelle che mi sarebbero servite per i murales: tutto locale, arte a km zero!
Quando ho chiesto a Paola se conoscesse una madre e una figlia storiche del quartiere e disposte a prestarsi come modelle, lei mi ha presentato proprio la persona che lavorava al banco dell’ortofrutta da cui mi ero servito. Io avevo già dipinto – prima di dipingere scatto delle foto da cui poi trarre l’immagine – le mani delle donne mentre lavoravano le spezie, anche con i mortai portati da loro stesse. Credo molto in questa idea di condivisione, del collaborare a un progetto per farlo insieme. Il mio modo di dipingere è molto individualista. Non posso delegare compiti a nessuno, per questione di mano e di stile pittorico, quindi mi piace far partecipare gli altri in fase di preparazione; mi piace scegliere i modelli, stare con loro, confrontarmi.
Anche la madre è stata eccezionale, una personalità esplosiva. Inizialmente era un po’ timida ma poi si è lasciata andare, nonostante la sua ottantina d’anni. Ha un viso davvero bello, con tratti dove io ritrovo molto il fiorentino.

Anche questo è curioso. Penso al tuo progetto Transumanze: spesso come modelli scegli persone che magari per età o per stile di vita non sono vicine all’idea di farsi rappresentare o fotografare. Come ti approcci loro?
La mia ragazza, Carla, è molto brava con la macchina fotografica e spesso mi accompagna durante i progetti. Anche quando non c’è, il procedimento consiste soprattutto nell’entrare in confidenza con il modello, altrimenti il risultato rischia di essere troppo impostato. Quando dipingi un ritratto è come se tu stessi passando del tempo con la persona, come se ci parlassi. Devi quindi capire se c’è feeling, se quello è il modello giusto per te e viceversa. Non sempre ci si trova davanti persone ben disposte. È normale ed è giusto che tutti si sentano a proprio agio.
Ti racconto due aneddoti, uno negativo e uno positivo. Il primo riguarda Transumanze, progetto realizzato in Sicilia, che parla della scomparsa delle cose, delle persone e delle tecniche ancestrali, del profondo rapporto uomo-natura. Avevo conosciuto un falegname che mi sarebbe piaciuto ritrarre. Ho provato a spiegargli che si trattava di un murales, ma lui non aveva ben capito – è difficile da spiegare, non capiva proprio il senso di dipingere su un muro. A lavoro già iniziato, proprio nel momento in cui stavo per realizzare il suo volto, mi ha chiesto di non farlo più, perché la moglie non voleva. Sono riuscito a risolvere il problema portando comunque a termine il murales, ma senza gli occhi. In questo modo il volto dell’uomo non è riconoscibile, ma solo una specie di sagoma e il volere della signora è rispettato.
L’aneddoto bello invece riguarda un pescatore, Girolamo, che avevo deciso di ritrarre per un festival di arte urbana a Oliveri, in Sicilia, dove si trovava una storica tonnara. Il muro a lui destinato era su una vecchia casetta che i pescatori usavano per cucire le reti. Abbiamo passato qualche giorno insieme, mi ha portato in barca con lui, fatto vedere come faceva gli ami, come puliva il pesce. Io lo
fotografavo e lui era molto a suo agio.
Aveva una moglie?
Sì, aveva una moglie. Questa volta a lei però non dissi che avrei ritratto il marito. Realizzai il murales in soli cinque giorni – tempistica comunque scandita anche dall’essere a un festival –, mentre Girolamo era in mare. La sera del suo ritorno ho scoperto che avrebbe fatto il karaoke in un locale, un esibizionista nato! Non appena mi ha visto mi ha ringraziato, davvero molto commosso. Questo mi ha
dato soddisfazione, mi è sembrato di aver reso un po’ giustizia alla dura vita dei pescatori, soprattutto di quelli che per anni avevano fatto la tonnara e poi se l’erano vista portare via. È qualcosa che in parte ripaga.
Le storie delle persone sono quello che conta di più, anche più della fisionomia dei volti. Se c’è una storia bella, che ha senso raccontare per far sì che tutti la conoscano, allora tutto il resto passa in secondo piano.
Restando in tema di relazioni, ti chiedo adesso di spostarci su un altro piano, ossia quello del pubblico al di là dell’opera. Il tuo modo di dipingere così velato e delicato sembra suggerire che tu voglia che qualcuno venga a scoprirti; un invito a guardare con più attenzione. Le tue opere presuppongono una specie di ricerca.
Assolutamente. La mia volontà è quella di sorprendere lo spettatore.
Voglio che si sorprenda nel vedere una tela bianca, che in realtà bianca non è. Quello che immaginavo quando ho fatto la mia prima mostra personale era una galleria piena di persone che guardavano dei quadri all’apparenza bianchi, così che i passanti per la strada, da fuori, si domandassero il perché, il senso di cosa stesse succedendo. Davanti all’opera si crea, grazie a questo detto-non detto, una situazione quasi teatrale che è parte stessa dell’opera. è come se fosse una performance. L’effetto sorpresa nasce quando lo spettatore si accorge di non essere stato abbastanza attento, come spesso lo siamo tutti, me compreso. È come un gioco. A questo si aggiunge anche la sfida tecnica di riuscire a nascondere un’immagine, gestendo quella linea sottile fra il percepirla e il non vederla più. Voglio che lo spettatore mi scopra, infatti, ma rischio che non mi veda. Mi piace l’idea di collaborare con lo spettatore perché il murales è fatto per lui e nella società in cui viviamo, dove tutto è pronto e servito, chiedo almeno lo sforzo di trovare l’immagine. Gli chiedo del tempo perché voglio passare del tempo con lui. Se lo spettatore poi non la percepisce o ne percepisce una differente, va bene lo stesso. Può succedere: è come quando guardiamo la forma delle nuvole. Giochiamo, giochiamo con l’arte e con la pittura!
Ci si aspetta che la street art gridi e sembra invece che tu voglia sussurrare.
Questo fa anche parte del mio carattere. Quando ho iniziato a fare i murales, nel mio piccolo paesino dove ero totalmente sconnesso dal mondo, non sapevo niente della cultura dei graffiti, nemmeno che fossero connessi all’hip hop. Ho iniziato perché il mio spirito di adolescente ribelle e alternativo voleva dire a chi gli stava intorno: “Io esisto”, che poi è lo spirito di ciò che io definisco muralismo.
Da sempre l’essere umano ha cercato di rappresentare qualcosa su un muro, basti pensare alle Grotte di Lascaux; voleva trasmettere un messaggio. Il graffito grida e urla quel messaggio.
Io sono entrato in questo mondo perché volevo essere diverso dagli altri. Se i graffiti adesso si devono vedere tantissimo e devono saltare subito agli occhi, io voglio fare l’inverso: voglio creare qualcosa che nessuno vede e poterla chiamare comunque graffito, perché si tratta di arte di strada la cui natura è quella di essere contestatoria ed esprimere la propria presenza in questa società. Volevo aggiungere al movimento questo aspetto: ci può essere molta poesia anche in opere realizzate con i codici del graffitismo, si possono fare lavori delicati e arrivare addirittura anche a un livello tecnico che è vicino, perché uguale non sarà mai, all’olio. Possiamo cercare le profondità e le trasparenze di un Leonardo o di un Caravaggio.
Così, le mie pitture scompaiono e diventano trasparenti.

Fino ad ora abbiamo parlato di scomparire nel chiaro e nel bianco, ma tu hai fatto anche il nero.
Ho fatto il nero nella cappella di un convento a Marsiglia. Ho dipinto l’urlo di una ragazza per rappresentare le suore che vivevano lì in clausura e che avevano fatto voto di silenzio. Anche il nero su nero può funzionare. La parola chiave resta proprio “nascondersi”: mettere una trasparenza per rendere impercettibile l’immagine.
Sempre a Marsiglia mi viene in mente un altro tuo murales. Un meraviglioso bacio a Le Panier. Hai realizzato lo zigomo di lei a partire da una crepa che corre lungo il muro, esattamente come su un’altra rottura hai dato forma ai profili dei protagonisti. Ne sono rimasta davvero colpita, ho avuto l’impressione che quell’immagine fosse sempre stata lì, che fosse il suo luogo esatto nel mondo. Era il muro stesso a parlare.
C’è grande rispetto del supporto nelle tue opere. Quanto è importante?
Quando ho visto quel muro, ho avuto la tua stessa impressione.
Mi è spesso stato fatto notare che i miei lavori contengono una nozione di tempo, come se fossero sempre stati presenti, come hai detto tu. Ho riflettuto molto su questa osservazione e adesso cerco di renderla una componente aggiunta al mio modo di dipingere.
Il rispetto del supporto è fondamentale e anche in questo caso risulta una sfida tecnica, perché non sempre il muro ti permette di trovare un’immagine. Quando non succede, lascio comunque tutta la sua texture – se ci sono dei funghi o delle macchie, per esempio, le mantengo – e cerco di lavorare a partire da questo, con le immagini. Io sono una persona che sta molto in ascolto e quindi probabilmente questo lato del mio carattere si riflette nel mio modo di lavorare: sono dietro al supporto; non davanti, ma sempre presente. Ognuno ha il proprio modo di guardare, ci sono cose che un occhio nota e altri no. Io sono molto attento ai dettagli, sono quelli che rendono le cose interessanti e ti lasciano qualcosa di più.

I dettagli sono quelli che raccontano le storie.
Sì, ti mostrano quella particolarità che non sai se altri hanno scoperto. Interagire con il muro lasciando tutto così com’è vuole anche invitare lo spettatore a prendersi il tempo per vedere tutti questi dettagli, perché no?
Per me che lavoro con le parole, anche la loro scelta è un dettaglio a cui fare caso. “Effimero” è un termine che indica la transitorietà delle cose e, oggi, è spesso usato con connotazione negativa, perché associato a qualcosa di instabile, perituro. I tuoi lavori sono effimeri per definizione, ma non lo sono nel senso che viene dato a questa parola. Immagino tu abbia una diversa visione di questo termine.
Sì. In realtà, a pensarci, tutto è effimero. Anche la Cappella Sistina lo sarebbe, se non ci si impegnasse a restaurarla. Ai tempi dei Greci o degli Egizi c’erano tantissimi templi di cui adesso non restano che le vestigia e si faceva molto uso del colore, anche se a noi non è arrivato. Eppure le piramidi restano le piramidi e la statuaria antica ancora affascina tantissimo. Come artista io ho scelto di fare il pittore di strada, non di studio: una volta realizzato il murales, me ne vado e non lo vedo più. Posso attaccarmi a lui soltanto durante il processo creativo, poi devo slegarmi. Sono quindi molto abituato all’effimero e vorrei che tutti imparassimo di più da questo concetto, perché tutto e tutti siamo momentanei, anche senza stare a entrare in discorsi filosofici sull’ora e sul presente.
Non possiamo creare niente pensando al fatto che durerà in futuro. Se rincorriamo troppo le cose, le perdiamo; si perde il senso del perché le stavamo facendo. La storia dell’arte è un grande setaccio: ogni anno, ogni secolo, ogni movimento nuovo è un colpo che si dà e alla fine quello che resta sono i pezzi più grandi. Quando si parlerà di street art fra cinquanta o cento anni, Banksy verrà ricordato come del Rinascimento si ricordano Raffaello, Leonardo e Michelangelo, anche se ai loro tempi i maestri bravissimi erano tanti di più. Ritengo un’espressione artistica vera e propria riuscire a fare qualcosa che può sparire dall’oggi al domani ma che, pur non fisicamente, resta in eterno. L’effimero non è né un valore aggiunto, né un difetto: è una sfida.
Nel mio caso specifico è anche terapeutico. Ho il vizio di catalogare sempre tutto: mi ricorda di non attaccarmi alle cose.

Ti faccio un’ultima domanda. Nato a Catania, trasferito a Parigi, tornato in Sicilia perché avevi nostalgia del Mediterraneo. Come sei arrivato a Marsiglia? Soprattutto, noti una certa differenza nel modo che la città ha di recepire la tua arte, rispetto all’Italia? Qui si respira una grande apertura.
Dopo tanti anni passati a Parigi, mi ero reso conto che mi mancava molto Catania e quando sono tornato, con un nuovo modo di pensare, ho riscoperto la mia città. Mi sono accorto che avevo bisogno di una vicinanza col mare e di un rapporto con la natura che fosse più stretto rispetto a quello con l’agglomerato urbano. Volevo, però, anche lavorare e vivere di arte soltanto. A Marsiglia, città mediterranea, ho trovato questo equilibrio per il momento.
In Italia ho avuto delle bellissime opportunità lavorative, come a Bertinoro o adesso a Firenze. Credo addirittura che il movimento che oggi viene chiamato street art sia molto più forte a Roma o a Bologna, che a Parigi . Parigi è una città che commissiona e investe molto in opere urbane, ma in Italia ci sono crew e artisti che davvero vogliono trasmettere un messaggio, come Canemorto, Blu,
Nemo, solo per dirne alcuni. Sono artisti che fanno murales a prescindere dal seguito che avranno e dal successo che potranno ottenere da una commissione. Anche all’estero noi italiani siamo super rinomati. L’italia però è indietro a livello di sovvenzioni e non ha compreso che dare spazio a street art e muralismo può portare alla forte rivalutazione di alcuni quartieri e contribuire alla creazione di un tipo di turismo differente, che vada ad affiancare quello classico a cui siamo abituati. Sarebbe moltiplicare, non togliere spazio. La vera grande differenza che noto fra i due paesi è che obiettivamente l’ecosistema francese, quantomeno a livello fiscale, ti facilita il duro – ma bellissimo – compito di essere artista.