Non esistono più gli intellettuali di una volta. Intervista a Vittorio Parisi

Non esistono più gli intellettuali
di una volta. Intervista a Vittorio
Parisi

di Tiziano Tancredi

Ricercatore e curatore, Vittorio Parisi è dottore di ricerca in Estetica presso l’Université Panthéon-Sorbonne di Parigi, dove ha discusso una tesi sul rapporto tra graffiti writing, street art e non-luoghi urbani. Attualmente ricopre il ruolo di direttore degli studi e della ricerca alla Villa Arson di Nizza.
In questa corposa intervista tra il serio e il faceto, dopo aver tratteggiato alcuni passaggi decisivi del percorso professionale di Vittorio, abbiamo sviscerato specifiche problematiche di stringente interesse per determinare i rapporti esistenti tra l’arte contemporanea e l’arte urbana: i prestiti, i punti di tangenza e/o di separazione tra i due sistemi; il posizionamento di alcuni artisti europei a cavallo, o meglio, in continuità tra il writing e l’arte contemporanea; l’importanza di luoghi di sperimentazione come gli artist-run space. Oltre alla possibilità di parlare di bizzarri casi di omonimia, musica e del perché alla fine tra gatti e intellettuali non è che ci sia così tanta differenza.

Inizierei con una domanda controcorrente, di quelle che non ti aspetti. Anche se forse sarebbe stato meglio non preannunciarlo così esplicitamente per non ridurre considerevolmente l’effetto sorpresa. Googlandoti, i primi due risultati in cui ci si imbatte prima del tuo profilo LinkedIn sono tutti interni all’universo musicale: Vittorio Parisi cantante della tradizione napoletana, Vittorio Parisi direttore d’orchestra. Parentela o casualità? Come valuti o ridi di questa vicinanza e che rapporto hai con la musica contemporanea leggera e classica? Ti butta giù o no?

Direi che ho un rapporto eccellente tanto con la musica classica visto che suono – male, ma mi accontento – il violino, quanto con la musica leggera. Compresa quella napoletana. Quando nel 1991 Renzo Arbore fondò l’Orchestra italiana i miei genitori andarono a sentirli in concerto e portarono a casa un CD con le loro interpretazioni dei grandi classici partenopei: Luna rossa, Era de maggio, Malafemmena…lo ascoltavamo sempre durante i viaggi in auto, avevo cinque o sei anni e quello diventò il mio CD preferito assieme a un altro ascolto fisso delle nostre scampagnate, guarda caso Il viaggio di Fabrizio De André, uscito nello stesso anno. Il fatto di avere per omonimo un illustre cantante napoletano del passato non può che farmi sorridere, così come mi fa sorridere, anche se per altre ragioni, quello di averne uno direttore d’orchestra. Quest’ultimo si è beccato per sbaglio dio solo sa quante e-mail indirizzate a me, perché i nostri indirizzi sono molto simili (o lo erano, magari lui per disperazione ha deciso di cambiare il suo): una volta, dopo aver stipulato un contratto di affitto a Parigi, il proprietario dell’appartamento gli mandò per sbaglio una mail destinata a me, nella quale mi invitava a pagare primo mese e caparra, con tanto di IBAN allegato. Seguì un breve ma esilarante scambio tra i due: l’uno diceva giustamente che non avrebbe pagato nessun fitto e nessuna caparra, l’altro pensava che io fossi un matto o uno a cui piacesse scherzare un po’ troppo. Ne approfitto, se mai questa intervista dovesse arrivare sotto gli occhi del Vittorio Parisi direttore d’orchestra, per dirgli: Maestro, mi perdoni, spero anzi un giorno di incontrarla per chiederle scusa di persona! Il suo umile omonimo.

Nel mio immaginario fai parte di una ristretta schiera di intellettuali (non dirò l’ultimo intellettuale perché è stato utilizzato troppo poco tempo fa su una rivista che tratta di politica) a tutto tondo in grado di discettare delle più disparate tematiche senza risultare mai fuori luogo o se non altro con punti di vista irriverenti e originali: cultura dell’internet e scena memetica italiana, arte contemporanea e arte urbana sino alla musica contemporanea sopracitata. Libri, musica classica, cinema d’essai fanno parte della rappresentazione che dai di te stesso sui social, nei quali ricorre sempre con una certa insistenza anche la presenza di gatti. Perché il fidato amico dell’uomo per te non è il cane?

Pur sentendomi lusingato e ringraziandoti per la generosità delle tue parole, proverò in tutti i modi nel corso di questa intervista a sabotare l’immagine fuorviante di intellettuale che dici di avere di me. E non per falsa modestia, ma perché oggettivamente non credo di aver ancora fatto, scritto o pubblicato nulla che possa farmi meritare una tale considerazione. E casomai un giorno ciò dovesse accadere, spero di conservare la mia attuale attitudine da anti-intellettuale, perché ti confesso che al netto di poche eccezioni gli intellettuali odierni non mi ispirano particolare simpatia. L’attività principale di questi ultimi sembra essersi ridotta a una costante promozione di sé sui social, che nel peggiore dei casi si accompagna a una forma abbastanza grottesca di attivismo e di impegno puramente ostentativi. Insomma, ho come l’impressione che vada sempre più delineandosi un’inquietante identità tra la figura dell’intellettuale e quella dell’influencer. Probabilmente è così che deve andare: gli intellettuali sono destinati a diventare questa roba qui, con buona pace delle mie idiosincrasie. Resta che, potendo scegliere, mi posizionerei volentieri all’esatto opposto dell’intellettuale odierno e del suo attivismo performativo: provo anzi un piacere perverso e infantile nell’ostentare una certa dose di disimpegno e nel proclamare scarso interesse per le cause che gran parte degli intellettuali della mia generazione dice di servire. Per esempio, posso dire che i gatti mi interessano molto più del linguaggio inclusivo, dell’arte socialmente impegnata o del riscaldamento globale. Nel bel mezzo di questa apocalisse, anziché aggiungermi alla già nutrita schiera di quelli che quotidianamente ci ricordano quanto siamo stronzi, preferirei di gran lunga aspettare la fine isolandomi in una villa, magari a Capri con l’aria condizionata a palla, ascoltando Anema e core e accarezzando quei quattro o cinque sacri di Birmania che mi porterei appresso. Ecco, sui gatti mi cimenterei volentieri a scrivere un saggio di estetica o di fenomenologia, soprattutto mentre il mondo va a fuoco. E i gatti mi interessano proprio in virtù del fatto che non sono loro i fidati amici dell’uomo: quei dieci, quindicimila anni di scarto nell’addomesticamento del cane rispetto a quello del gatto fanno sì i primi siano nostri alleati da molto più tempo dei secondi, sicché il gatto conserva ancora oggi la sua dignità felina, di specie, molto più del cane. Ciò detto, non ho nulla contro i cani, e come ogni buon sociopatico sono un amante degli animali tutti. Mi piace però pensare che il gatto sia, tra le altre cose, spontaneamente capace di un’attitudine contemplativa all’esistenza che non appartiene a nessun altro animale, men che meno all’essere umano. Non a caso Théophile Gautier ne parlava come di una bête philosophique. I gatti sono gli unici intellettuali di cui non potrei mai stancarmi.

Escif, Vitoria-Gasteiz, Spagna, 2017 © Escif

Tornando al campo di interesse delle culture urbane che ci lega, so che nel 2011 sei stato assistente della Danysz Gallery di Parigi. Fondata nel 1991 da Magda Danysz, la galleria è stata tra le prime a trattare a Parigi artisti fondamentali all’interno della scena artistica urbana a livello globale quali Futura 2000, JR, Shepard Fairey, Vhils solo per citare i più famosi sino ad arrivare agli italiani Miaz Brothers e Sten Lex. Cosa ricordi di quell’esperienza e quanto ti ha permesso di familiarizzare di quella che comunemente viene chiamata (con tutti gli errori di una semplificazione del caso) scena dell’arte urbana?

Scoprii la Danysz Gallery a Bologna, ad ArteFiera, nel gennaio del 2009. Come scoperta seguì di pochi mesi quella del FAME Festival a Grottaglie, e entrambe le cose costituirono dell’ottimo materiale su cui impostare il mio lavoro di tesi triennale. Il loro stand esponeva opere di Mike Giant, Shepard Fairey e JonOne, artisti che allora apprezzavo particolarmente. Quando poi due anni dopo mi capitò l’opportunità di fare l’Erasmus a Parigi, non persi l’occasione di visitare la galleria e di lasciare loro un curriculum e una lettera di motivazione per uno stage come assistente. Riuscii a farmi assumere. Come esperienza mi servì molto, soprattutto perché mi permise di scrollarmi di dosso un po’ di ingenuità giovanile e disilludermi sul lavoro del gallerista, che consiste soprattutto nel far sì che la galleria sia o resti redditizia, cosa difficilissima anche in una città come Parigi. Magda Danysz è una persona estremamente capace nel suo lavoro, e infatti col tempo ha aperto altre sedi a Shanghai e a Londra. Nel 2011 aveva già ampliato considerevolmente il suo campo d’azione, e le mostre su cui lavorai non avevano nulla a che vedere con l’arte urbana: una mostra dello scultore cinese Wang Keping, e una di polaroid gran formato di Julian Schnabel. Ho continuato a collaborare con lei negli anni, per esempio nel 2018 ho avuto la fortuna di scrivere l’introduzione al libro Futura 2000 – Full Frame da lei curato.

Nel 2014 insieme a Pigment Workroom hai creato il progetto “Enziteto Real Estate” che ha portato Alberonero, Alfano, Ciredz, Geometric Bang e Tellas a realizzare degli interventi nel quartiere San Pio (ex Enziteto) di Bari. Come si è sviluppato il rapporto con il territorio in quell’occasione? A distanza di anni a mo’ di bilancio, quali sono state le maggiori difficoltà incontrate e quali gli elementi positivi di cui hai memoria?

Pigment Workroom nasce come laboratorio di arte urbana partecipata e studio di serigrafia. Assieme a Mario Nardulli e Giuseppe Santoro concepimmo Enziteto Real Estate come un anti-festival, un progetto che, prendendo un po’ in giro il discorso della funzione riqualificativa dell’arte urbana nei quartieri disagiati – anche se di questo, in fondo, si trattava – fingeva di gentrificare un quartiere ingentrificabile come San Pio (già Enziteto). Quartiere che, con le dovute distinzioni storiche, sociodemografiche e architettoniche, è un po’ l’equivalente barese dei più celebri Scampia e Secondigliano a Napoli. Ottenere i permessi comunali per intervenire sulle facciate delle palazzine di San Pio fu una passeggiata, più complesso fu ottenere la fiducia dei residenti e la loro autorizzazione, l’unica che contasse veramente, a intervenire su quegli edifici con delle opere per lo più astratte. Con gli artisti organizzammo dei laboratori di disegno per i bambini e i ragazzi del luogo, e la risposta fu molto incoraggiante. Parallelamente dialogavamo con i residenti delle palazzine, coinvolgendoli nel processo creativo degli artisti, cercando di scongiurare il più possibile il rischio che l’operazione si riducesse a una cosa calata dall’alto, un regalo di pochi illuminati alla massa di disgraziati, come accade il più delle volte in questi casi. Gli elementi positivi sono tanti: a titolo personale, sicuramente quello di aver trascorso dieci giorni dodici ore al giorno in un luogo dove non avevo mai messo piede, considerato da noi fighetti come uno dei più pericolosi di Bari. E l’aver potuto lavorare con artisti che apprezzavamo (e continuiamo a apprezzare), che fino ad allora non avevamo mai incontrato, e che si sono rivelati particolarmente adatti a lavorare in un contesto complicato, dimostrando facilità di dialogo e voglia di coinvolgere altre persone nei processi creativi. D’altra parte, un po’ per tornare al discorso di prima, l’arte socialmente impegnata ormai mi annoia a morte, e a posteriori non riesco a non pensare che progetti come quello di San Pio finiscano col servire più le amministrazioni locali a nascondere la polvere sotto il tappeto, che non le comunità alle quali, pure in buona fede, si rivolgono.

Sulla Pagina della Fondazione di Vagno nel 2016 hai scritto un articolo, per me folgorante, dal titolo La grande illusione della street art«amministrata». In quell’articolo analizzavi con dovizia di particolari la diffusione a macchia d’olio del fenomeno dei festival di Street-art che, in termini numerici, tra il 2008 e il 2015 si era ampiamente triplicato. Non era mancata anche una certa dose di intelligente autocritica quando scrivevi: “occorre prendere coscienza del fatto che quella forza corrosiva, dissonante e non accomodante, squisitamente sociale, politica e non ornamentale che caratterizza in potenza quest’arte, può esistere solo in funzione della sua autonomia rispetto al potere amministrativo, al mercato dell’intrattenimento e, a dirla tutta, anche al desiderio di chi, come me, ha avuta la malsana idea di fare di quest’arte un oggetto di studio. Contribuire alla conoscenza di un fenomeno come questo equivale ad esercitarvi un’inevitabile dose di violenza: a “dissecarlo” pur di osservarlo meglio, a tradirne la naturale riluttanza verso qualsiasi appropriazione, sperimentazione e interpretazione non richieste. Il presente scritto non fa eccezione.” A tuo modo di vedere, qual è lo stato della street art al giorno d’oggi in Italia in termini di istituzionalizzazione del fenomeno? La diffusione a macchia d’olio dei festival ha subito un incremento oppure una battuta d’arresto? Penso specificamente all’esperienza virtuosa di Altrove Festival a Catanzaro la cui ultima edizione si è tenuta nell’estate del 2019.

Non saprei dire se il fenomeno dei festival sia ancora in espansione o se abbia subìto una battuta d’arresto. Non ho continuato a osservarne l’andamento, ma al tempo stesso e in maniera del tutto aprioristica ho come l’impressione che, anche nel caso in cui il numero dei festival fosse in aumento, l’interesse della prima metà degli anni Dieci sia andato scemando, nel senso che non noto più quel clamore e quel senso (del tutto ingannevole) di eccezionalità che allora sembrava accompagnare eventi e progetti di questo tipo. I muri dipinti sono diventati ordinaria amministrazione, e non mi sorprenderebbe più di tanto se nel giro di pochi anni si arrivasse al punto paradossale di non trovare più muri disponibili. Forse allora saremo tutti – artisti, ricercatori, operatori culturali, semplici appassionati… – un po’ nauseati e, spinti dall’horror pleni, torneremo ad apprezzare i muri vuoti. D’altronde, che l’unico gesto artistico urbano un minimo radicale rimastoci fosse quello di ripristinare le superfici ce l’aveva già mostrato Blu a Berlino e a Bologna nel 2014 e nel 2016, benché quello stesso gesto sia stato immediatamente svuotato della sua radicalità dal modo in cui è stato raccontato e commentato sui principali media. Significativo anche che festival come il FAME nel 2012 e Altrove nel 2018 abbiano deciso di non contribuire più all’inarrestabile muralizzazione del mondo, il primo smettendo semplicemente di esistere, il secondo interrogandosi sul se e eventualmente sul come proseguire. Entrambe le organizzazioni però hanno intrapreso, seppure in modi e con intensità assai diverse, la strada dell’esposizione per così dire “tradizionale”: non sui muri di una città ma fra le mura di uno spazio espositivo. Dalle ceneri del FAME si è sviluppata una galleria d’arte di respiro internazionale capace di funzionare pur trovandosi, occorre sottolinearlo, in un paese di trentamila abitanti del sud Italia. Altrove Festival ha chiuso il cerchio allestendo una mostra musealePost-Graffiti Stress Disorder, che diversamente da quelle fino ad allora organizzate in Italia, puntava a un superamento concreto del discorso spesso troppo limitante dell’arte urbana, per raccontare un gruppo non esaustivo di artisti europei intenzionati a rivendicare il proprio essere pienamente artisti prima ancora di essere urbani. Quel discorso è limitante anche se parliamo di istituzionalizzazione, che rimane un concetto un po’ astratto. Esistono semmai diverse forme di riconoscimento dell’arte urbana, ma soprattutto dei singoli artisti. Tali forme possono concorrere fino al riconoscimento più alto di tutti, che dal mio punto di vista (sempre di odierno anti-intellettuale, e anche un po’ reazionario) non può che essere quello della storia. Possiamo credere quanto vogliamo che siano crollate le frontiere tra arte e intrattenimento, ma all’interno delle produzioni culturali di un’epoca, la storia – e cioè l’insieme di persone che, letteralmente, la scrivono: storici, teorici e critici – finisce sempre in qualche modo col separare da tutto il resto l’arte capace di restituire e disvelare criticamente il mondo a se stesso. Se ci interroghiamo sull’istituzionalizzazione del writing, o di quella che chiamiamo street art, e non solo in Italia, cosa ci stiamo chiedendo in fondo? Se questi ultimi siano sui media? Se siano oggetto di studi? Se siano esposti e venduti dalle gallerie? Se siano nei musei e nelle biennali? Tutti questi processi hanno già luogo fin dagli albori del writing e, in sé, significano ben poco. Dovremmo chiederci semmai chi, fra i protagonisti di questa storia, sia o sia stato in grado di rivelarci qualcosa sul mondo in cui viviamo. Attualmente, l’unico davvero meritevole di essere annoverato fra i grandi protagonisti dell’arte degli ultimi cinquant’anni mi sembra Rammellzee, per il modo in cui ha saputo interpretare, attraverso il suo ikonoklast panzerism, lo scontro tra i differenti ordini di segni nello spazio urbano, in una maniera sorprendentemente affine a quella di certi grandi pensatori europei, Baudrillard su tutti. Complicato dire chi potrà sedersi al tavolo dei grandi in futuro, vista la quantità di artisti e di opere circolanti negli odierni canali di diffusione dell’arte. Qualche idea ce l’avrei ma visto che quella degli aspiranti profeti è un’altra categoria disgraziata preferisco tacermi; come sempre il discrimine lo faranno, in concorso, un certo tipo di critica e un certo tipo di mercato.

Nell’agosto del 2020 si è svolta alla galleria Ruttowski 68 di Parigi la prima mostra organizzata dall’associazione Saeio che, radunando le opere degli artisti amici più vicini al writer scomparso, mira alla costituzione di una fondazione a suo nome. Grazie alle segnalazioni di molti amici writer, mi sono recato di persona per visitarla sulla scia di un profondo interesse che nutro nei confronti di una figura importante per il writing europeo come quella di Saeio di cui però, mio malgrado, mi sfuggono i tratti principali. Che importanza ha e che ruolo ha rivestito Saeio all’interno della scena europea dei graffiti e perché credi possa essere importante portarne avanti l’eredità?

Saeio, e come lui gli altri componenti della crew parigina PAL (in particolare Horfee, Mosa, Tomek, Skub) hanno giocato e continuano a giocare un ruolo fondamentale nella scena writing europea – basti vedere quanti proseliti, in termini stilistici, hanno generato nel mondo (account Instagram come @antistylers e @trashgraff ne raccolgono quotidianamente parecchi). Ma la loro importanza non si limita al solo universo dell’arte. urbana. Nella mostra Post-Graffiti Stress Disorder che citavo prima, e che ho avuto il piacere di co-curare assieme a Edoardo Suraci, avevamo selezionato due artisti del gruppo – Alexandre Bavard (Mosa) e, per l’appunto, Saeio – proprio perché si sono contraddistinti per una ricerca formale capace di reinventare il writing come atto pittorico, scultoreo e performativo, di andare oltre il dualismo tra outdoor e indoor, curandosi soprattutto di produrre un’arte che conservasse, in qualsiasi sua forma, una traccia del mondo da cui essa proviene, sia in senso culturale – l’età d’oro dei graffiti newyorchesi – sia in senso urbanistico – i margini e gli interstizi urbani, i luoghi infrastrutturali, i non-luoghi. Nella fattispecie, tutto ciò che ha fatto Saeio da un certo punto della sua carriera fino alla sua sfortunata scomparsa, che si trattasse di un pezzo su una saracinesca della Goutte d’or a Parigi o di una tela esposta in galleria, è stato sottolineare, attraverso la trasformazione del lettering di stile e derivazione newyorchese in pittura astratta, quanto il writing originario fosse già esso stesso pienamente pittura.

Per rimanere in ambito francese, in una lunga intervista in tre parti per Exibart del dicembre del 2020, hai parlato di un’evoluzione per la quale alcuni artisti francesi, nati nel writing illegale abbiano cominciato a dialogare con il mondo dell’arte contemporanea. Hai menzionato specificamente i casi dei già citati Olivier Kosta-Thefaine (Stak), Antwan Horfee (Horfee) e Alexandre Bavard (Mosa) che sono stati capaci “di un percorso di sperimentazione e reinvenzione costante dei propri linguaggi, che nel corso degli ultimi cinque anni li ha portati a esporre in luoghi come il Palais de Tokyo a Parigi o Somerset House a Londra”. Vuoi approfondire questo passaggio di un discorso molto più ampio che è possibile trovare in quella intervista? Credi che possano esserci dei solidi punti di contatto tra i due circuiti dell’arte urbana e dell’arte contemporanea che, per quella che è la mia modesta percezione maturata nel corso del tempo, corrono su binari paralleli che di tanto in tanto si incrociano?

Solidi punti di contatto tra il sistema dell’arte urbana e quello dell’arte contemporanea esistono nella misura in cui esistono artisti, galleristi e critici capaci di posizionarsi, operare e scrivere su entrambi i fronti. Fortunatamente ce ne sono – tutti gli artisti e i galleristi fin qui citati fanno parte di questa categoria, ad eccezione di Blu che però merita davvero un discorso a parte – il che in fin dei conti mi fa dubitare della necessità di continuare a distinguere tra due sistemi paralleli. Forse occorre cominciare a pensare al primo come a una nicchia del secondo, e non sorprende che artisti come Bavard, Horfee e Kosta-Thefaine rifiutino ormai da un pezzo di essere annoverati fra gli “artisti urbani”. Non si tratta certamente di un rifiuto delle proprie origini, che come abbiamo visto continuano ad essere saldamente presenti nei rispettivi lavori, ma di un desiderio più che legittimo di vedere il proprio lavoro riconosciuto ai livelli più alti, non associato a robe che il più delle volte sono un surrogato di pop art di bassissimo livello, e soprattutto non banalizzato da narrazioni che continuano a raccontare a sproposito di presunte opposizioni al “sistema”, di città come tele o “musei a cielo aperto”, e via discorrendo.

Nell’attuale panorama artistico mondiale legato alle culture urbane, quali sono a tuo modo di vedere le ricerche artistiche più interessanti nella fascia degli artisti emergenti?

Bisogna prima di tutto capire cosa intendiamo per artisti emergenti. Un po’ come la classe media, quella degli artisti emergenti è diventata una categoria-blob al cui interno coabitano profili e capitali (reputazionali, nel nostro caso) assai diversi: da artisti neodiplomati che devono ancora farsi conoscere al di là delle mura della propria accademia, ad artisti con diecimila followers su Instagram, da artisti che hanno fatto una mostra a quelli che hanno già una galleria o hanno già fatto una o più residenze, etc. È quindi complicato identificare il profilo-tipo dell’artista emergente, ma anche sulla base di quello che vedo nel mio lavoro e soprattutto nel paese in cui vivo, la Francia, mi sentirei di attirare l’attenzione su artist-run space come il Wonder a Parigi (dove tra l’altro lavorava Saeio). In generale mi sembra che in questo genere di luoghi, più di altri, la ricerca artistica contemporanea trovi le sue applicazioni più interessanti. Il Wonder è uno dei più significativi in Europa nel panorama delle culture urbane, in primis proprio perché la dimensione urbana non è un punto di arrivo ma di partenza: nella fattispecie, il collettivo ha rimesso in attività una tipografia abbandonata a Clichy, nella banlieue nord di Parigi, trasformandola in residenza per artisti con atelier di vario genere (pittura, legno, metallo, ceramica, video, ma anche tatuaggio, oreficeria e cucina). Gli artisti che lavorano al Wonder dialogano con il sistema del contemporaneo e lo fanno ibridando le pratiche e gli stili, con un’attenzione particolare ai linguaggi immersivi: Nelson Pernisco, proveniente anche lui dal writing, da un paio d’anni utilizza le bombolette di schiuma espansa per creare ambienti che assomigliano a inquietanti foreste aliene; Pierre Gaignard fonde cinema documentario, videogame e scultura in delle installazioni interattive che sembrano provenire da scenari fantascientifici; Louis Grolou Danjou crea situazioni in cui la pittura murale si alterna a sedute di tattooing e creazioni culinarie sperimentali; Valentine Gardiennet propone una sintesi tra disegno e scultura che invade gli ambienti e mira a una sorta di cartoonificazione del reale. A questi esempi se ne aggiungono altri, sicuramente anche in altri luoghi – in Francia penso anche al centro d’arte Triangle Astérides di Marsiglia – e la direzione più interessante è probabilmente quella data appunto dalle pratiche immersive. In fondo l’arte urbana è sempre stata, a modo suo, immersiva. Come ricercatore mi piace insistere sull’idea di “opera-luogo” e di “estetica del fuori-luogo” per descrivere il funzionamento del writing e di un certo tipo di street art, attraverso la subordinazione estetica dell’ambiente architettonico preesistente: penso che gli artisti emergenti qui citati siano un esempio di come questa subordinazione estetica dello spazio sia portata alle sue estreme conseguenze, a maggior ragione in ambienti chiusi o espositivi, sfruttando anche le nuove possibilità tecniche e tecnologiche immersive.

L’autore

Tiziano Tancredi

Tiziano Tancredi (Roma, 1989) è un curatore d’arte contemporanea interessato ai rapporti di ordine antropologico, sociologico e architettonico che le arti visive instaurano con lo spazio pubblico.

Storico dell’arte con laurea triennale e specialistica conseguite all'Università La Sapienza di Roma, nel 2014 ha collaborato con Nuda Proprietà all’interno del Rialto Sant’Ambrogio di Roma. Ha curato molteplici mostre personali (tra cui Trasforma di Truth alla Horti Lamiani Gallery, Profili rivoluzionari insieme a Giovanni Argan dell’artista Leonardo Crudi, Double U di ADR alla Parione9 gallery) scritto testi critici per cataloghi, articoli e recensioni per riviste d’arte contemporanea, tenuto seminari ed interventi, condotto visite guidate, curato la comunicazione (ufficio stampa e social media) in ambito museale, galleristico e per festival.

È co-founder del Collettivo Dialoghi Artistici con cui tra il 2021 e il 2022 ha realizzato il progetto E-CRIT, un dialogo informale online sull’arte contemporanea che in tre diverse stagioni ha coinvolto 15 artisti di diverse generazioni. Nel 2021 ha curato la realizzazione del progetto Lupus in Muta, doppio murale dell’artista Lucamaleonte sulla facciata dell’IC Borgoncini Duca “Via G. Manetti” e sull’asilo nido “I Cuccioli di via Silveri”, entrambi a Roma. Tra il 2021 e il 2022 è stato assistente della Galerie Valeria Cetraro di Parigi. La sua prima mostra collettiva curata dal titolo « Il Personale è Politico | Il Politico è Personale » con opere di Collettivo FX, Federica Di Pietrantonio, Guerrilla Spam e Verdiana Bove, ha avuto luogo a Fiera di Verona dal 21 al 24 febbraio 2023 in occasione dell'XXI congresso nazionale dello Spi-Cgil.

Dal 2021 collabora con la Street Levels Gallery di Firenze con cui porta avanti una serie di interviste ad alcune delle personalità più interessanti del panorama italiano e europeo dell’arte urbana. Vive e lavora a Parigi.

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