Un’esplosiva vitalità: intervista a Giacomo Spazio

Un’esplosiva vitalità: intervista a Giacomo Spazio

di Tiziano Tancredi

Ritratto di Giacomo Spazio che indossa una T-shirt realizzata con l’uso della fotocopiatrice per la mostra “T-Shirt T-Show. Storia e nuovi stili nella T-shirt” tenutasi a Studio Marconi a Milano nel 1984. Foto dal catalogo, 1984. Autore della foto: sconosciuto.

Nel corso di sei intensissimi mesi di scambi, di domande e di risposte con l’artista Giacomo Spazio, memoria storica del punk e della cultura underground in Italia, abbiamo abbordato moltissime delle sue matrici creative: la performance, la poesia, le sperimentazioni con la Rank Xerox, le fanzine, le avventure editoriali, le band, il mercato musicale, la sua produzione artistica che interagisce con supporti musicali e non, sino ad arrivare alla sua ultima opera Segni Lasciati Lungo i Bordi dell’Autostrada Verso Il Futuro, una lunghissima “nuova Enciclopedia dell’Arte Moderna” in cui possiamo trovare tutti i tipi di scrittura esistenti: l’alfabetica, la segnica, l’iconica e l’asemica. Il risultato? Quasi 15 pagine di intervista e 35 foto: in buona sostanza un capitolo di un libro. Cosa dovrebbe spingervi ad arrivare fino in fondo? Il puro desiderio di surfare tra le infinite onde che compongono l’esplosiva vitalità di Giacomo Spazio.

Ritratto di Giacomo Spazio in metro a Milano, 2018. Autore della foto: Guido Borso.

Caro Giacomo, credo non ci sia altro modo per costruire quest’intervista che iniziare dalle basi. Cos’è per te avere “l’attitudine nell’underground”?

L’attitudine è, semplicemente, tutto! L’attitudine è un parametro culturale che comprende delle norme non scritte (si pensi alle discipline dell’hip-hop ovvero djing, mcing, writing, breaking, beatboxing), che determinano la tua persona come cultore della materia in cui o con cui, vuoi esprimerti. Sia che si voglia agire in un territorio circoscritto alla ‘sottocultura’ oppure in un ambito più convenzionale, comune o commercialmente dominante. Underground significa semplicemente sotterraneo, ancora nascosto ai più e non conforme alle regole della società. Ma dato che oggi viviamo in un flusso costante di informazioni, ‘underground’, non significa che nessuno ti conosca, ma che nessuno sa esattamente quello che produci all’interno della società in cui vivi e nello specifico, prima che mi venga chiesto, il mio rapporto con il sistema dominante è da sempre lo stesso: “Include me-out!”.

NOTA “Include me-out” non significa escludermi, ma includimi fuori… in italiano potrebbe essere “Ci sono ma quando voglio, ma tu devi considerarmi semplicemente perché non hai il diritto di escludermi. Ci sono quando è interessante o c’è un rapporto alla pari.”

Giacomo Spazio, Per vivere in città bisogna essere una tigre, mixed media (materiali vari e collage su tela), 194 x 137,5 cm, 1989 > 1993. Collezione dell’autore.

Mi hai appena parlato dell’underground ma molto spesso nelle interviste citi il termine di overground che, con mia somma sorpresa, non mi era mai capitato di incontrare. E dunque, cos’è questo overground? Esiste indipendentemente dall’underground o i due termini sono in uno stretto rapporto di dipendenza/complementarietà reciproca?

Overground è ovviamente contrapposto a underground, quindi visibile. La produzione di una fanzine è underground per sua natura poiché possiede una bassa tiratura, ma il suo produttore può metterla in vendita in un negozio specializzato in editoria indipendente (cioè fuori dal circuito della grossa distribuzione) dove i frequentatori del negozio potranno decretarne il successo o il fallimento. Quando qualcosa volutamente fuoriesce dall’Underground per essere “mostrata” ad un pubblico vario avviene uno spostamento di senso ed entra nell’overground, diventando di fatto visibile a tutti e potenzialmente un fenomeno di costume – modo consueto di agire, di pensare, di comportarsi di una persona – con una sua probabile deriva commerciale.

Abbiamo abbordato la questione delle fanze che non ho dubbi nell’affermare che per te sia di vitale importanza. Segue serie di domande a raffica (come una sezione dedicata all’interno dell’intervista), le cui risposte forse esauriranno la mia curiosità sconfinata sull’argomento:

1.1. Qual è stata la primissima fanzine che hai realizzato?

Era intitolata Città Nuda e per la prima volta mettevo nero su bianco alcune mie poesie. Era il 1976 e la realizzai con l’amico Antonio Meo. Prima avevo solo assistito alla realizzazione di piccole pubblicazioni politiche indipendenti come Puzz di Max Capa, Gatti Selvaggi e Poesia Metropolitana (di cui feci parte). Poi non feci più nulla fino al 1980. Da allora in poi ho proseguito a produrre sia zine che libri di vario formato, anche se in modo discontinuo.

Copertina del numero 0 di Guerra Interna di Puzz, rivista autoprodotta di poesia radicale e politica, editore: Puzz, 1976. Tiratura: sconosciuta.
Antonio Meo e Giacomo Spazio, immagine della copertina di Città Nuda, stampa Offset, edizioni Poesia Metropolitana, 1976. Tiratura: 300 esemplari. Collezione Privata.
Copertina del numero 2 di Gatti Selvaggi, rivista autoprodotta di critica radicale politica, auto-edizione, 1975. Tiratura: sconosciuta.
Copertina del numero 4 di Poesia Metropolitana, rivista autoprodotta di critica radicale politica, auto-edizione, 1975. Tiratura: sconosciuta.

1.2. Quale è l’ultima che hai fatto o quale stai creando proprio ora?

L’ultima “NS BN 22”, è stata realizzata per e con Norberto Spina ed è stata messa in vendita a metà novembre del 2022. Mentre la prossima potrebbe essere una zine a mio nome oppure potrei dare alle stampe una rivista d’arte.

1.3. Come affronti la realizzazione di una zine?

In ogni pubblicazione che mi viene affidata cerco sempre di raccontare una storia, per questo motivo per me non è importante la qualità dei materiali con il quale devo lavorare, ma la strada per la sua realizzazione finale è sempre piena di dubbi e ripensamenti.

1.4. Realizzare una zine: credi sia un processo collettivo e di condivisione o piuttosto qualcosa di intimo e personale?

Possono sussistere tutte e due le modalità. Io però se lavoro per altri, prima di accettare e intraprendere il lavoro pratico, ho sempre bisogno di uno scambio di opinioni. Poi il processo diventa inevitabilmente “intimo”, ma questo non deve mai porre in secondo piano le idee espresse dalla persona che affida a me la sua “arte”, poiché il mio compito è rendere evidente e fare risaltare la qualità del suo lavoro.

Copertina del numero 1 di SPAZIO BIANCO, trimestrale di espressione creativa, stampa offset a colori, Edizioni E.P.K., 1984. Tiratura: 350 esemplari. Collezione Privata.

1.5. Quali sono le pubblicazioni più significative fatte da altri che hanno segnato indelebilmente il tuo immaginario?

Sono un ammiratore sfegatato dei libri d’artista. Ne possiedo diversi e devo alle soluzioni immaginarie che trovo costantemente “nascoste” nelle loro pagine la capacità di ispirarmi. Nello specifico fondamentale è stato Process: A Tomato Project nelle sue due varianti per avermi fatto capire definitivamente come lavorare con le immagini, con il testo e con questi due elementi assieme. Sono infinitamente grato a Tauba Auerbach perché i suoi libri possiedono complessità e divertimento.

Copertina del libro Process; A Tomato Project book, Thames & Hudson, 1996.
Copertina del libro How To Spell The Alphabet di Tauba Auerbach, Deitch Project, 2007.

1.6. Per realizzare un progetto editoriale, da dove inizi? Hai un’idea pregressa o ti lasci guidare dalla parte testuale e dalle immagini?

Per prima cosa guardo il materiale che mi hanno fornito e se il lavoro mi piace, chiedo subito quanto economicamente si ha a disposizione per realizzare la tiratura richiesta. Poi penso al formato e alla carta. Quindi passo direttamente al lavoro di impaginazione seguendo semplicemente l’istinto cercando un ritmo e, nello stesso tempo, cerco di trovare delle soluzioni (typo/grafiche) per ottenere quello che, piano piano, sotto ai miei occhi, si forma. Spesso mi piace anche aggiungere piccole difficoltà che hanno bisogno di manualità per essere risolte.

1.7. Quale dilatazione temporale ci può essere dalla prima germinale idea alla realizzazione definitiva/distribuzione di una zine?

In generale in 30/45 giorni viene distribuita. Dipende semplicemente dalla sua complessità. Una volta è successo che, terminata anche la stampa, l’artista ha aspettato più di un anno per metterla in vendita.

Rimaniamo in tema libro d’artista/fanzine ma dal punto di vista teorico. Per 6 anni accademici hai insegnato al Politecnico di Milano e nel tuo libro del 2006 “Fuc/H/Ksia. Manuale di controcultura grafica per le nuove generazioni” con tuoi testi e design di Fs52, in una pagina scrivi: “therE is not betteR practice thAn theOry”. Ci vuoi dire di più su questa tua affermazione che forse non sbaglierei a definire aforisma, oltre alla tua esperienza al Politecnico?

Essenzialmente credo che in tutte le attività umane bisogna avere il coraggio di andare alla radice, all’essenza di quello in cui siamo direttamente coinvolti. In questo caso stiamo parlando del disegno grafico e la frase indica chiaramente che lo studio della teoria della grafica è la pratica migliore per fare il disegnatore grafico. Questo perché non ha importanza, almeno per me, che il lavoro di progettista grafico sia chiuso (per abbreviare) nel binomio “brutto/bello”, ma che il fruitore recepisca il messaggio che, come progettista grafico si ha l’obbligo di comunicare e, non mi stancherò mai di ripeterlo, se il lavoro di disegnatore grafico possiede una valenza sociale, è perché è la membrana della comunicazione tra società e individuo, tra cultura e commercio.
Il lavoro di insegnamento invece, è molto bello quanto molto faticoso e poco remunerato. Per ovviare alla penuria della vile pecunia ho sempre instaurato un rapporto di discussione aperta durante le lezioni e il feedback restituitomi dagli studenti ha spesso più che ripagato la fatica e, ovviamente, la mancanza del contenuto economico.
Oltre a questo aggiungo: “Giovani, voi che possedete energia, idee, avete in mano il mondo. Spakkate tutto. Sfruttate ogni possibilità messa a disposizione della tecnologia. Fotteteneve di qualsiasi regola formale. Non fatevi dire da nessuno come si deve approcciare un problema. È il risultato che conta e, anche se all’occhio dei più risulterà orribile quello che avete realizzato, siate comunque orgogliosi del vostro lavoro. Guardatevi in divenire. Siate dei sismografi”.

Copertina e pagina interna di Fuc/H/K/sia Libro di controcultura grafica per le giovani generazioni di Giacomo Spazio, disegno grafico di FS52 / Alfio Mazzei, City Living Edition, 2006. Tiratura: 500 copie ltd.

Mi fa sorridere perché mano mano che vado avanti nella collaborazione con la Street Levels Gallery trovo sempre più delle linee di collegamento tra le varie interviste, delle macrosequenze che tornano…ad esempio di come approcciare un problema, il cosiddetto “problem-solving”, ne avevamo parlato ampiamente nell’intervista a Rub Kandy con cui tra l’altro avete esposto a settembre del 2022 nella mostra “Illusione collettiva” a Torino. La prossima domanda però ci porta a Milano. Cosa trovi orribile della città in cui vivi? Cosa cambieresti?

Trovo falsa la narrazione della città-green. Quella per la quale dal 2024 a Milano le auto debbano fare 30 all’ora, mentre non si ha il coraggio di vietare tout-court l’uso dell’auto. Inoltre con la cementificazione mostruosa a cui stiamo assistendo da un paio di anni a questa parte, si toglie terreno che potrebbe essere utilizzato per piccole oasi di verde, contribuendo in questo modo ad avvelenare l’aria a tutti i cittadini. Come se questo non fosse sufficiente prendendo furbescamente alla lettera le leggi europee si consente di trasformare ogni schifoso buco (negozi, seminterrati, cantine) in unità abitative, sottraendo in questo modo spazi utili alla convivialità e alla socialità. A Milano infine per le arti non esiste nulla, tranne associazioni che di fatto sono circoli privati.
La cultura a Milano è un mistero buffo. Certo gli spazi comunali se hai un progetto te li concedono, ma è tutto quello che fanno. Ti danno un posto vuoto e tutto e intendo tutto, lo devi procurare tu. L’assessore alla cultura e il suo assessorato non è in grado di realizzare nulla. L’arte in città è solo una questione di affari. Il Comune si incipria, tutto qui. Cosa cambierei? Personalmente nulla, sono talmente abituato ad inventarmi le cose (non sono l’unico ovviamente) che il rapporto con le istituzioni della città in cui sono nato e vivo è solo dettato dalla burocrazia.

Caro Giacomo, vorrei esplorare con te i tuoi inizi. Credo che sia sempre interessante approfondirli perché in una certa qual maniera si trovano le radici di qualcosa che poi crescerà dopo.
Quali frasi poetiche scrivevi sui muri di Milano negli anni ‘70? In cosa consistevano le performance che compivi nei teatri negli anni ‘80? Come quelle eredità hanno confluito direttamente e indirettamente nella tua pratica artistica d’oggi?

Ho iniziato presto a scrivere anche se ho pubblicato poco di quello che scrivevo e scrivo. Dei primi anni ’70, sinceramente direi che non ricordo nulla, tranne questa frase: “ Io non sono un uomo qualsiasi. Tra me e il sole, nessuna differenza “. Frase che poi finì all’interno di una poesia (tra le prime che mi hanno pubblicato), intitolata; ‘Voglio i Soldi’.
In quel periodo sui muri di Quarto Oggiaro disegnavo a spray una specie di scatola aperta dalla quale usciva una testa in cima ad una molla che semplicemente diceva “Hello!” Smisi per i costi delle bombolette, ma ripresi nei primi anni ’80 a sporcare con gli stencils i muri tra qui e la Spagna.
Ovviamente spero sempre che qualcuno per caso abbia fotografato i muri di Quarto Oggiaro e che quel poco che feci possa riapparire, come mi successe per le performance. Un giorno, via FB, mi scrisse una persona che aveva scattato diverse foto delle mie esibizioni e in seguito mi consegnò una busta piena di foto in B/N. La cosa mi fece anche ridere perché mi scrisse: “ Sono più di 20 anni che ti cerco!”.
Tra il 1977 e il 1982 mettevo in scena diversi interventi dove recitavo le mie prose e a volte scritti di altri. Poi di colpo persi interesse nel performare e solo nel 2009/2010, tornai in strada per 3 azioni performative/installative, realizzate in 3 giorni diversi e dedicate alla crisi economica che aveva investito il mondo. Ero stato impressionato dagli improvvisi licenziamenti nella classe medio borghese italiana che di colpo lasciò a casa centinaia di impiegati di vario livello.
Performare per strada, mi ha insegnato a relazionarmi con le persone all’interno del circuito artistico e non ho nessun problema a chiamare un altro artista per congratularmi della qualità del suo lavoro. Infine, la scrittura è presente nei miei quadri, direi quasi sempre, anche se non sempre è la parte più in evidenza del mio lavoro!

Giacomo Spazio, Felix, stelline, sex, stencil, Milano, 1984 ca. Il resto è di Atomo e Swarz.
Pagina 15 con la poesia Voglio i soldi di Giacomo Spazio, numero 2 di Camion, Rivista Internazionale di nuova Poesia, Torino 1980. Tiratura: 500 copie
Ritratto di Giacomo Spazio che performa No Futuro durante l’ACTION+ a Teatro Miele a Milano nel 1980. Autore della foto: Roby Schirer
Ritratto di Giacomo Spazio che performa No Futuro durante l’ACTION+ a Teatro Miele a Milano nel 1980. Autore della foto: Roby Schirer
Ritratto di Giacomo Spazio e Antonio Meo che performano a Parco Sempione a Milano nel 1981 ca. Autore della foto: Pietro Borsi.
Ritratti di Giacomo Spazio durante la Performance Metropolitana di Poesia al Teatro sotterraneo Bar Magenta a Milano, 1980. Autore della foto: Andrea Vischi.
Performance di Giacomo Spazio con Antonio Meo e Nicola sul tram n.33 a Milano, 1980. Autore della foto: Andrea Vischi.

Ho una passione sconfinata per Bruno Munari. Libri come Supplemento al dizionario italiano (1958), Fantasia (1977), Da cosa nasce cosa (1981) in maniera diversa hanno permeato il mio immaginario e dato un impulso pratico ad un sapere altrimenti sempre confinato nella teoria. In una tua intervista ho letto che lo hai frequentato. In che luogo vi siete conosciuti? Che luoghi di incontro condividevate? Che tipo di rapporto avevate?

Ho avuto la possibilità di conoscere Bruno Munari per il classico colpo di fortuna. Nei primi anni ’80 sperimentavo la creazione di immagini usando la fotocopiatrice a colori Rank Xerox che allora aveva la caratteristica di avere un piccolo effetto in rilievo, a secondo di come combinavi i colori. Lavoravo sulle macchine in presa diretta. Mettevo oggetti piani e 2d o 3d nello spazio dove di solito le persone collocano il foglio da fotocopiare. Un giorno, mentre trafficavo con diverso materiale, uscì una fotocopia a colori dai toni argentati. Tutte le persone del nucleo Rank Xerox impazzirono e il direttore del centro mi chiese se volessi collaborare con il loro house organ (giornale aziendale di propaganda) sul quale avevano una pagina dedicata alle sperimentazioni artistiche. In cambio potevo usare la macchina a gratis e con un tecnico come assistente. Ovviamente accettai all’istante e, con mia gioia assoluta, vollero mandarmi da Bruno Munari che veneravano perché il Sig. Munari aveva scritto un libro (“Xerografia”) dedicato all’uso creativo della fotocopiatrice Rank Xerox. Così, qualche giorno dopo, mi ritrovai nello studio di Munari e nacque un bellissimo rapporto. Potevo andare a trovarlo quando volevo (quando c’era) e parlavamo di arte. Delle mie pessime idee e delle sue ricerche. Era una persona persa scientemente nel “suo” mondo. Nel suo studio vidi nascere le pitture con l’olio di lino su tela di lino.
A tale proposito ricordo questo episodio in maniera lucida.
Io: “Sig. Munari, ma perché usa l’olio puro sulla tela grezza che comunque non si vede nulla?”.
Munari: “Spazio, non possiamo essere certi che non si vedrà nulla”.
Io:“ Lei crede?”.
Munari: “Io, vorrei riparlarne con te, fra un po’ di tempo”.
Aveva ragione lui. Nel tempo, la polvere avrebbe dato corpo a quelle pennellate e reso visibile tutto. Quando andavo nel suo studio, parlavamo molto del suo lavoro su mia insistenza. Era così eclettico. Le pareti piene di lavori almeno per me, bizzarri. Ma non c’era mai un pomeriggio di calma nel suo studio. Io ricordo orde di giapponesi. Era molto conosciuto e aggiungerei rispettato in Giappone. Da noi era un “piccolo” culto, almeno nei primissimi anni ’80. Il grande successo italiano lo colse dopo la retrospettiva del 1986 a Palazzo Reale a Milano. Eppure quando nel 1998 morì, per il semplice fatto che a 18 anni (se non a 17) era nel Comitato Nazionale dei Futuristi, non fu dichiarato lutto nazionale. Questo fatto mi colpì molto, dato che lo consideravo e lo considero tutt’ora, uno dei creativi italiani più importanti del XX° secolo!
P.S. 20 anni dopo realizzai un quadro dedicato a Munari in cui usai come base una sua serigrafia e ci dipinsi sopra. Appena lo esposi, il quadro finì immediatamente in una collezione privata.

Giacomo Spazio, invito alla mostra SPRAYX di Atomo e Swarz, stampa offset e spray, 1986. Tiratura: 100 esemplari. Collezione Privata.
Giacomo Spazio, cartolina la cui immagine è stata ottenuta appoggiando direttamente gli oggetti sul piano della fotocopiatrice RanK Xerox, Malù Card editore, Brasile, 1986. Collezione Privata.

Mi piacerebbe aprire ora una sottorubrica (come con le fanzine sopra) in cui porti delle domande sul tuo rapporto con l’universo musicale, che è sempre stato molto presente nella tua vita.

2.1 Vorrei iniziare chiedendoti della band punk rock The 2+2=5, il cui nome è un evidente omaggio alla distopia orwelliana, che nel 1982 hai fondato con Nino La Loggia. A cosa vi siete ispirati per i primi due dischi con la band? Che traiettorie musicali avete percorso?

Nino aveva da poco terminato la sua avventura musicale sia con gli HCN che con i Sunset Boulevard. Io avevo appena smesso di fare performance e avevo bisogno di staccare dal gruppo Poesia Metropolitana. Ci siamo conosciuti nei luoghi frequentati dai punks milanesi ed è nata un’amicizia che dura tuttora. Avevamo più o meno gli stessi gusti musicali che scivolavano dai Kraftwerk ai Killing Joke e intorno a noi molti amici comuni suonavano. Chiesi a Nino se aveva voglia di fare qualcosa assieme. Nino era, ed è, un ottimo musicista, io molto, molto meno. In poco tempo riuscimmo a stratificare dei brani che Nino costruiva e produceva e in cui io inserivo i miei temi poetici che riguardavano il mondo a venire. Era 1982 e non volevamo assomigliare a nessuno. Lo dimostra anche la scelta non commerciale del nome che ci siamo scelti, The 2+2=5, praticamente senza glamour. La nostra strumentazione era composta dalla batteria elettronica Roland 303, da un Revox per le basi, basso e chitarra. Nino, che ha una voce migliore della mia, non voleva cantare e così lo feci io. Poco tempo prima di entrare in studio per registrare il nostro primo LP intitolato “… into the future” (una sorta di concept-album che racconta il futuro dell’umanità), Nino conobbe Rieko Hagiwara, una ragazza giapponese della nostra stessa età e dai gusti musicale affini ai nostri, che divenne il terzo elemento della band. Il suono che uscì dalle registrazioni, fu un misto di dance not dance, punk ma tendente alla wave, dark ma spinto verso l’elettronica e a noi piaceva tantissimo ma, “… into the future” non riscosse troppo interesse: fu dura arrivare a vendere 500 copie e non rientrammo mai dei soldi spesi per realizzarlo. Poi, verso la metà degli anni ’90, divenne un culto sotterraneo e negli ultimi 5 anni ha goduto anche di un paio di ristampe sia in Cd via Spittle Rec. e in vinile via Mennequin Records.
Di “… into the future” esiste anche una versione in italiano e qualche singola canzone, ogni tanto appare su YouTube, ma nessuno di noi sa dove sia finito il master della versione italiana.
Per il disco successivo che si intitolava, “Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore / odio”, personalmente volevo che la band diventasse una struttura aperta, dove noi tre componevamo i brani, ma che a cantarli fossero altri artisti. Questo disco invece raggiunse le 500 copie in breve tempo, ma non riuscì ad eguagliare l’interesse del primo, nonostante io pensi sia molto particolare. I testi affrontano tematiche sulla vita in modo unico e il disco possiede un suono generale mai udito prima in Italia. Sia come sia, questo fu anche il disco che segnò l’iniziò della separazione musicale tra noi tre della band. Io desideravo un suono nuovo più aperto, un non-stile, mentre Nino sentiva il bisogno di un corpo sonoro più tradizionale o più rock per capirci. Questa separazione sonora la si percepisce perfettamente in “Amazing Stories”, terzo e ultimo lavoro a nome del gruppo, dove per la prima volta i testi non sono tutti scritti da me. Negli anni a seguire, dopo la conclusione dell’avventura musicale con The 2+2=5, ho comunque continuato a suonare, sia solo che con altri musicisti.

The 2+2=5 (Formazione originale della band: Rieko Hagiwara, Nino La Loggia e Giacomo Spazio), 1983. Autore della foto per Vogue Italia: Javier Vallhonrat.

2.2. Nel 1986 insieme a Gomma, Kikko e Valvola hai realizzato la prima rivista italiana senza copyright e contro-cultura elettronica Decoder, mentre nel 1987 sei tra i fondatori con Carlo Albertoli e Luigi Marinoni, della rivista musicale indipendente Vinile 

Andiamo per piccoli passi altrimenti si crea confusione e di confusione, per me, ce n’è sempre troppa. Dunque, l’idea di realizzare una rivista alternativa, e non una semplice zine, è del 1985. Ne sono certo perché ho una lettera, datata 1985, scrittami da Vittore Baroni, persona squisita, in cui egli si scusa per non riuscire a scrivere un articolo che gli avevamo chiesto per il 1° numero di Decoder (così si chiamò) il giornale che allora pensammo molto libero nei contenuti. L’idea era di mischiare cultura alta e bassa, passando per musica, fumetti, arte, cinema, letteratura, con stile. Per me, e sottolineo per me, avrebbe dovuto essere un magazine a tutti gli effetti, anche se, di fatto autoprodotto e realizzato in bianco e nero. Il primo numero ebbe una gestazione lunga e la sua realizzazione cartacea avvenne alla fine del 1986, ma, per non sembrare vecchio, prima di mandarlo in stampa, lo datammo 1987. Ecco perché su Wikipedia, la data ufficiale che sancisce la nascita della rivista Decoder, riporta il 1987. Sempre nel 1987 fu creato il secondo numero della rivista che, per dissidi interni al suo organico, io lasciai prima che venisse stampato. Per questo motivo venni epurato dal colophon, nonostante avessi contribuito ai suoi contenuti. Lasciai Decoder scontento, perché con il cambio di organico nella redazione avevo intuito che, nel tempo, sarebbe finito in una situazione quasi militante, scivolando intellettualmente verso una zine evoluta e non verso una rivista in grado di creare dello stile. Per mia fortuna, nello stesso periodo, Carlo Albertoli mi chiese di creare una rivista professionale di musica e di cultura ad essa collegata. Così, gettandomi a capofitto nella realizzazione di Vinile, curai il mio forte dolore nel lasciare Decoder.
Vinile fu finanziata da Stampa Alternativa, attraverso Marcello Baraghini.
Io lavoravo da diverso tempo per Stampa Alternativa, per loro avevo creato il formato quadrato dei libri musicali per la la collana S/Concerto. Il redattore capo e amico sodale era Luigi Marinoni che come me era super appassionato di musica.
Quando Carlo Albertoli propose l’idea di una rivista musicale, Luigi ed io ci presentammo da Marcello Baranghini e gli proponemmo di produrre la rivista, utilizzando lo stesso formato dei libri musicali e con allegato uno o due 45 giri a numero.
Sinceramente mi aspettavo che Marcello rifiutasse la nostra proposta ed invece accettò entusiasta e pochi giorni dopo eravamo al lavoro sul numero zero. La redazione era composta da Gigi Marinoni, Carlo Albertoli, io e Laura Mars che lavorava professionalmente in una rivista italiana di successo. Inoltre potevamo contare su una piccola rete di collaboratori. Vinile durò per cinque numeri e il picco massimo di vendite fu di 2000 copie. Chiudemmo poiché non riuscivamo a coprire le spese di realizzazione. 

Copertina del numero 1 di Decoder, rivista internazionale underground, formato A4, 2007. Tiratura: 500 esemplari.
Indice del numero 1 di Decoder, rivista internazionale underground, formato A4, 2007. Tiratura: 500 esemplari. Collezione Privata.

2.3. Dalla rivista Vinile alla creazione della casa discografica indipendente Vox Pop Records il passo è breve e recentemente è stato reso disponibile in rete un documentario dell’epoca in cui venivate intervistati, tu, Manuel Agnelli, Edda, Carlo Alberto e Mauro Joe Giovanardi…

Come ho avuto modo di raccontare più volte, la Vox Pop Records esisteva grossomodo da un paio di anni ma con il nome di (Andy) Vox Pop Records. Se si guardano attentamente i primi dischi in vinile pubblicati, si nota, sia nei centrini del disco che nel marchio, una stella con all’interno la faccia di Andy Warhol. Allora la casa discografica era gestita alla meglio interamente da me, dato che era mia ed era completamente illegale. Non era un marchio registrato. Non aveva una partita IVA. Era totalmente autoprodotta. In seguito, con la complicità di Carlo Albertoli, Manuel Agnelli, Paolo Mauri e Mauro Ermanno Giovanardi, si formò ufficialmente la casa discografica che a quel punto prese il nome legale di Vox Pop Records. Legalmente venne aperta con il contributo economico di Manuel Agnelli e il mio, che di fatto consisteva nelle spese effettuate nel produrre i primi 2 dischi. Gli altri amici sarebbero stati parte integrante e avrebbero ripagato la cifra societaria con il lavoro fisico. Nel frattempo io, che avevo avuto altre esperienze discografiche con la No-Name Music e poi con la Eternal (piccoli marchi a me legati che fallirono per mancanza di soldi e struttura) strinsi un accordo legale con Nicola Calgari, proprietario del BIPS Studio a Milano, un piccolo studio di registrazione professionale, e con lui, creai la Mondopop, la società che controllava i diritti editoriali delle produzioni discografiche della Vox Pop Records.
La creai in primo luogo poiché durante le mie esperienze discografiche passate avevo capito che i veri soldi arrivavano dal controllo delle edizioni e dal suo ritorno economico attraverso la SIAE, allora unico organo di deposito e riscossione diritti editoriali. Inoltre l’accordo col BIPS ci garantiva la possibilità di un monte ore a disco per le registrazioni.
Una volta stretto questo accordo, feci fatica a distribuire quote di questa società agli altri soci delle Vox Pop, tutti convinti che i soldi si facessero con le vendite fisiche dei dischi. Cosa che nel 1986 era in parte ancora vero, ma dipendeva solamente da quanti dischi riuscivi a stampare e vendere, mentre i soldi provenienti dalle ‘edizioni’, dipendevano dai passaggi in televisione, radio, inserimenti in colonne sonore e infine, dai balli e concertini (la musica al consumo basico) e il ritorno economico non si esaurisce, mai!

Tableau vivant di Manuel Agnelli. Anno sconosciuto. Autore della foto: sconosciuto.

2.4. Nel sopracitato documentario c’è un passaggio in cui parli del delicato equilibrio che un’etichetta discografica indipendente deve riuscire a sostenere dal punto di vista imprenditoriale e di mercato. Dicevi: “Non mi posso permettere di sbagliare due dischi consecutivamente perché sennò sparirei dal mercato, non mi posso permettere anche di trovare un disco che mi venda tantissimo perché mi manderebbe talmente in orbita e non avrei nemmeno i capitali per sostenerlo. Quindi mi devo accontentare di assestarmi su un raggio medio della questione.”
Quanto era difficile secondo te mantenere questo equilibrio tra imprenditoria e cultura indipendente agli albori della cosiddetta musica “indie”?

Le etichette indipendenti sono un fenomeno antecedente al punk e alla ‘sua’ rivoluzione DIY in tutto il mondo occidentale. Per capirci e per restare in territorio italiano, basta citare la coperativa l’Orchestra i cui primi vagiti sono del 1974 e la Materiali Sonori (Ma.So.), attiva dal 1977, entrambe specializzate in suoni di matrice popolare / folk, cantautorato politico e che oltre a essere produttori avevano anche la funzione di distribuzione del prodotto sonoro.
Quello che era totalmente da inventare era il mercato. Le bands, le piccole etichette discografiche e i primi giornali (Rockerilla e Musica’80) alla fine del 1978 esistevano, ma il mercato, quello fatto non solo da mille appassionati ma da un vero pubblico in grado di assorbire i prodotti, arrivò dopo. Il libro ‘Compra o Muori’ scritto da Luciano Fricchetti Trevisan nel 1983 testimonia un fermento culturale vivo che però diverrà consistente e visibile a partire dal triennio 1988/1989/1990. Da quel momento in poi le major si sentirono minacciate e iniziarono a fare la guerra al mercato cosiddetto ‘indipendente’ in maniera subdola e costante fino alla sua caduta agli albori degli anni 2000. Restare a galla in quel famoso decennio era difficile. Con l’aumentare delle persone interessate a sostenere il nuovo suono, aumentano anche le spese sia per sostenere le richieste, sia per l’ampliarsi anche delle proposte musicali. Gestire una piccola etichetta discografica spuria come la Vox Pop, sempre in bilico tra proposta culturale e sperimentazione, era veramente difficile e a poco a poco, non solo noi, ma tutte le altre piccole realtà scoppiarono economicamente. Noi, Century Vox, Contempo, Supporti Fonografici, Flying Rec. (queste sono solo alcune) cessarono di esistere, cadendo sotto la pressione economica del mercato. Le major non solo strappavano gli artisti di punta alle piccole etichette che li avevano scoperti offrendo loro contratti milionari, ma creavano ad hoc finte label discografiche, da loro controllate, creando confusione nel mercato con artisti fasulli che nulla avevano di indie.
Valga solo come esempio il marchio finto indie, Black Out gestita dalla Mercury/ Polygram Italia srl. visibile in rete digitando

https://www.wikiwand.com/it/Black_Out_(record_label)

Copertina di Compra o Muori la produzione discografica indipendente italiana di Luciano Fricchetti, disegno grafico di Piermario Ciani, Stampa Alternativa / Sconcerto editore, 1983. Tiratura: sconosciuta.

2.5. Nella mia percezione generazionale, in Italia la cosiddetta musica indie è iniziata con gli Afterhours, I Verdena, e poi esplosa nella seconda parte degli anni 2000 con i Baustelle, Dente, Le Luci della Centrale Elettrica (per citarne alcuni) narrazione sostenuta da testate come Repubblica XL, per poi virare verso l’itpop con i Cani e con tutta la generazione successiva facente capo ad etichette discografiche come Bombadischi, 42records, Garrincha Dischi, Carosello Records. Com’è cambiato il panorama discografico in termini di mercato dagli esordi della musica indipendente ad oggi?

Per rispondere in maniera esaustiva a questa tua domanda, ci vorrebbero diverse pagine. Quindi ti dico che in una vecchia intervista di diversi anni fa, prefiguravo il ritorno di Sanremo, come punto centrale per l’espansione ‘intellettuale’ ma al negativo, del mercato musicale indipendente italiano. Ma essere ‘alternativi’ al sistema si può ma rimane una semplice e sana questione di attitudine.

Giacomo Spazio, During Christine's Sleep, mixed media (materiali vari e collage su tela) 70 x 100 cm, 1990. Collezione privata.

2.6. Nella tua ricerca artistica, hai frequentemente interagito con dischi o supporti musicali. È il caso della serie di acrilici effettuati sulla copertina del disco Still – Clothbound edition – dei Joy Division, iniziata nel 2005, o nel caso dell’acrilico e disco su copertina di libro cucito a tela Hard Pop Life del 2012. Quali sono altre opere magari meno conosciute in cui la tua ricerca artistica ha interagito con quella musicale? Esiste una coerenza o un attaccamento sentimentale nella scelta dei supporti (dischi, vinili di artisti ricorrenti e/o di determinati generi musicali) su cui vai ad intervenire? C’è un’uniformità nelle tecniche (cucito, acrilico) con cui interagisci con i supporti o è molto variegata e dipende da caso a caso?

Ho sempre avuto un forte legame con la musica e l’immaginario che ne deriva. Lo possiedo fin da bambino. Così come da sempre possiedo un forte legame con l’oggetto libro. Imparai a rilegare a 12 anni. Crescendo queste passioni si sono giustapposte e ho creato diversi lavori artistici che mischiano sia questi due elementi insieme che singolarmente. Ovvio che ci sia amore da parte mia negli oggetti che uso e, quando uso i libri, per rispetto, cerco sempre di usare “prime edizioni”.
È altrettanto vero che il mio lavoro in generale si conosce poco. Il motivo principale è che ho fatto poche mostre personali, nonostante abbia oggi 66 anni.
Eppure dalla mia prima esposizione ho sempre avuto la fortuna di essere seguito da appassionati (collezionisti e amici), in maniera costante.
Questo ha cullato in me la mia predisposizione a non volermi esporre troppo e nello stesso tempo mi ha dato la possibilità di sperimentare materiali e nuovi media.
Ho potuto così lavorare costantemente a basso ritmo su un corpo di lavori che si intersecano tra loro, dato che gli elementi base del mio ‘fare’ arte, sono sempre gli stessi: libri e dischi, con tutto il mondo che si cela all’interno di essi. Parole, suono e grafica che sono gli elementi urbani più presenti e nello stesso tempo più invisibili del nostro vivere quotidiano. Questi sono anche gli elementi con cui ho la presunzione di mettere in discussione il sistema in cui vivo.
Di lavori poco conosciuti che ho realizzato ce ne sono parecchi, ma qui voglio ricordare quelli che nessuno ha mai visto. Rosso (2005), dedicato a P.P.Pasolini e realizzato solo con prime edizioni di tutti i suoi libri e Solo chi non lavora vive (credo 1995) che è una grande tela in cui celebro sia i due pensatori a me più cari, Paul Lafargue e Guy Debord e, goliardicamente, me stesso che sono nato il 1° maggio, festa del lavoro.

Giacomo Spazio, Hard Pop Life, mixed media (acrilico, disco in vinile 7” e libro su tela) 60 x 80 cm, 2009. Collezione dell'autore.
Giacomo Spazio, Dead Soul, mixed media (su tela), 50 x 50 cm, 2006. Collezione privata.
Giacomo Spazio, Shadowplay, mixed media (su tela), 50 ×50 cm, 2005. Collezione privata.
Giacomo Spazio, Solo chi non lavora vive, acrilico e libro su tela, 170 × 140 cm, 2004 ca. Collezione dell'autore.

Mi dicevi qualche risposta fa che la scrittura e quindi la parola è presente nei tuoi quadri quasi sempre, anche se non è sempre la parte più in evidenza del tuo lavoro. Hai recentemente realizzato un’opera potenzialmente infinita, destinata ai posteri, dal titolo “Segni Lasciati Lungo i Bordi dell’Autostrada Verso Il Futuro”, composta da 50 tele 60×60 cm che fanno 15 metri di lunghezza per 1,20 m di altezza, in cui il linguaggio la fa da protagonista. Perché la consideri come un’Enciclopedia dell’Arte Moderna? Quale molteplici riferimenti culturali è possibile scorgere tra le fittissime maglie segniche?

Segni Lasciati Lungo i Bordi dell’Autostrada Verso Il Futuro è un gigantesco ‘affresco’ pieno di riferimenti alla cultura che ha forgiato e plasmato più di una generazione. Elementi che io ho traslato e posizionato con lo stile che mi contraddistingue sulla tela. Ci tengo anche a sottolineare che si è trattato di un grande lavoro di ‘copia dal vero’ poiché tutto quello che è un ritratto sulla tela è apparso improvvisamente ai miei occhi e sono sicuro che era stato lasciato celato, ma non troppo, da centinaia di ribelli senza causa per lasciare una traccia del loro operato. Operato realizzato contro il Sistema dominante.
La difficoltà del lavoro è stata quella di strutturare i piani di lettura in modo semplice, popolare. POP!La considero come una nuova Enciclopedia dell’Arte Moderna, semplicemente perché ho lavorato solo elementi recuperati dalla metà degli anni ‘70 ad oggi, prelevandoli dalla strada, dal cinema, dalla musica, dai videogiochi, passando impunemente dal lettrismo, dal punk, dal post-situazionismo all’Hip-Hop.Nei 15 metri del quadro ritroviamo tutte le forme discrittura. L’alfabetica, la segnica, l’iconica e l’asemica. Concludo dicendoti che tutto è scaturito da un disco dei Massimo Volume del 1995 che cito nel titolo del quadro, ma lascio a te e ai lettori scoprirne il nesso.
In ultimo, saluto tutti quelli che hanno letto questa digressione da te condotta. Ciao!

Copertina del cd audio dei MASSIMO VOLUME Lungo i Bordi, Artwork di Andrea Scarfone, WEA italiana, 1995.
Giacomo Spazio, Segni Lasciati Lungo i Bordi dell'Autostrada Verso Il Futuro, 50 tele 60 x 60 cm per una lunghezza totale di 1500 cm e di una altezza di 120 cm, 2022. Dettaglio.
Giacomo Spazio, Segni Lasciati Lungo i Bordi dell'Autostrada Verso Il Futuro, 50 tele 60 x 60 cm per una lunghezza totale di 1500 cm e di una altezza di 120 cm, 2022. Dettaglio.
Giacomo Spazio, Segni Lasciati Lungo i Bordi dell'Autostrada Verso Il Futuro, 50 tele 60 x 60 cm per una lunghezza totale di 1500 cm e di una altezza di 120 cm, 2022. Dettaglio.

L’autore

Tiziano Tancredi

Tiziano Tancredi (Roma, 1989) è un curatore d’arte contemporanea interessato ai rapporti di ordine antropologico, sociologico e architettonico che le arti visive instaurano con lo spazio pubblico.

Storico dell’arte con laurea triennale e specialistica conseguite all'Università La Sapienza di Roma, nel 2014 ha collaborato con Nuda Proprietà all’interno del Rialto Sant’Ambrogio di Roma. Ha curato molteplici mostre personali (tra cui Trasforma di Truth alla Horti Lamiani Gallery, Profili rivoluzionari insieme a Giovanni Argan dell’artista Leonardo Crudi, Double U di ADR alla Parione9 gallery) scritto testi critici per cataloghi, articoli e recensioni per riviste d’arte contemporanea, tenuto seminari ed interventi, condotto visite guidate, curato la comunicazione (ufficio stampa e social media) in ambito museale, galleristico e per festival.

È co-founder del Collettivo Dialoghi Artistici con cui tra il 2021 e il 2022 ha realizzato il progetto E-CRIT, un dialogo informale online sull’arte contemporanea che in tre diverse stagioni ha coinvolto 15 artisti di diverse generazioni. Nel 2021 ha curato la realizzazione del progetto Lupus in Muta, doppio murale dell’artista Lucamaleonte sulla facciata dell’IC Borgoncini Duca “Via G. Manetti” e sull’asilo nido “I Cuccioli di via Silveri”, entrambi a Roma. Tra il 2021 e il 2022 è stato assistente della Galerie Valeria Cetraro di Parigi. La sua prima mostra collettiva curata dal titolo « Il Personale è Politico | Il Politico è Personale » con opere di Collettivo FX, Federica Di Pietrantonio, Guerrilla Spam e Verdiana Bove, ha avuto luogo a Fiera di Verona dal 21 al 24 febbraio 2023 in occasione dell'XXI congresso nazionale dello Spi-Cgil.

Dal 2021 collabora con la Street Levels Gallery di Firenze con cui porta avanti una serie di interviste ad alcune delle personalità più interessanti del panorama italiano e europeo dell’arte urbana. Vive e lavora a Parigi.

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