Questioni irrisolte: Dialogo con Collettivo FX

L’agile strumento di trasporto e di pensiero di Collettivo FX.

Questioni irrisolte: Dialogo
con Collettivo FX

di Tiziano Tancredi

Con Collettivo FX più che di un’intervista si è trattato di un dialogo, di uno scambio volto ad esplorare tematiche, sollevare questioni ad ampio raggio per chi si occupa di muralismo, arte urbana, street-art, arte pubblica contemporanea: il coinvolgimento o meno del pubblico nella realizzazione di un murales; le attività delle associazioni come raccordo indispensabile nel processo di continuità territoriale e artistica, la lentezza burocratica, spunti per usare un murales, il problema dell’utilizzo di uno strumento, teorico o pratico che sia. Spunti di discussione, efficientissimi, che potrebbero non funzionare. Questioni irrisolte come nel caso delle pittate di Collettivo FX allo Zen di Palermo nel 2015.

Caro Collettivo FX, iniziamo subito con una domanda sentimentale, personale un po’ in continuità con il motivo della nostra conoscenza un po’ a mo’ di bilancio. Ci siamo conosciuti il primo maggio del 2016, ne sono quasi sicuro, alla jam delle Officine Reggiane che organizzasti insieme a Reve+ e Ivana de Innocentis di Urban Lives. Alla ricerca del tuo collettivo ho dedicato la mia tesi magistrale di storia dell’arte contemporanea dal titolo “Dalla Street-art all’Arte Pubblica: le opere di Collettivo FX come co-progettazione sociale e comunitaria” discussa nel 2017 all’università La Sapienza di Roma, in cui il capitolo centrale era dedicato al progetto “Dietro ogni matto c’è un villaggio”.
A settembre 2015, infatti, lanciasti un call per mail e su Facebook chiedendo alle persone di segnalare il matto del paese che è in grado di generare ricordi. Risposero in molti, tanto che riuscisti ad organizzare un vero e proprio tour del tutto indipendente che dal 5 novembre al 5 dicembre 2015 toccò sedici tappe in dieci regioni italiane, da Nord al Sud, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia. Quello che emerse fu un’indagine statistica sui generis in cui fu possibile valutare lo stato di salute delle comunità interessate dal tuo passaggio. Come dichiarato in un resoconto a posteriori, “il soggetto era il matto ma il vero argomento era il paese.”
Com’è cambiato il nostro paese dal 2015 ad oggi, dato che non hai smesso di percorrerlo con progetti commissionati e indipendenti? Cosa cambieresti del mitico metodo FX per i murales?

L’altro giorno avevo un appuntamento con un paio di Assessori. Prima di capire che muro era da fare ho chiesto quale comunità, gruppo, associazione, o altro avrebbe usato il murales. Poi ho chiesto come sta l’Amministrazione pubblica, se è in grado di gestire bonus e PNRR. Mi hanno risposto: “ovviamente no, solo per avviare un progetto servono almeno due anni e quelli finanziati devono essere realizzati e conclusi entro il 2026.”

Cosa vuol dire usare un murales per te? Mi stai dicendo che il problema della committenza di opere nello spazio pubblico, o più sinteticamente dell’arte pubblica (o street-art o urban art pur nel rispetto delle varie declinazioni, accezioni e differenze semantiche che potremo approfondire) in Italia, risiede in uno scarto tra velocità-reattività di pensiero e lentezza delle pratiche burocratiche? Quali sono i problemi invece, se ci sono, nell’ambito della committenza privata?

Non mi è ancora chiaro quale sia il problema. I due argomenti che ho affrontato con gli Amministratori (il primo sul murales e il secondo sul PNRR) erano apparentemente diversi, ma riflettendo successivamente ho capito che qualcosa non quadrava tra strumento e sua applicazione, tra murales e provvedimento amministrativo. Ovviamente parliamo di due strumenti molto diversi, per forma e dimensioni, ma chi ha in mano lo strumento si deve porre il problema di chi lo usa. È sufficiente concepire il PNRR migliore del mondo perché questo funzioni? È sufficiente pensare il murales migliore del mondo perché questo funzioni? Quale rapporto ci deve essere tra committente (pubblico o privato) e autore (di arte o di decreti)?

Non ho una risposta pronta e chiarificatrice su una questione tanto densa quanto spinosa ma posso provare ad avanzare degli spunti di riflessione, soprattutto sulla domanda È sufficiente pensare il murales migliore del mondo perché questo funzioni?
A mio modo di vedere l’aggettivo “migliore” comporta un giudizio di valore possibile solo a posteriori, e comunque rimane sempre molto limitato e circoscritto a chi esprime tale pensiero, alle sue intenzioni e al suo ambito di azione ed incisività sulla realtà.
Da una parte credo che molti degli effetti positivi o negativi sul funzionamento o meno di un murales si vedano in realtà successivamente, a distanza di molti anni, in termini di eredità memoriale, valorizzazione e anche (in alcuni casi) di rilancio di un determinato territorio. Come se il murales facesse da volano e non fosse che un piccolo tassello di un processo molto più ampio. Se, in fase di progettazione, molte delle persone che poi effettivamente vivranno e faranno funzionare quel murales sono state coinvolte (senza rincorrere il coinvolgimento, l’engagement, del pubblico nella sua totalità perché utopico) con molta probabilità gli effetti benefici saranno statisticamente più rilevanti. Questo è uno scenario possibile, ideale, ma ovviamente non l’unico, dal momento che un altro approccio potrebbe non prevedere il coinvolgimento del pubblico e magari avere degli effetti misurabili migliori. Ad esempio, nel corso delle molteplici progettualità di cui sei stato protagonista, ci sono casi in cui ti sembra che il tuo murales abbia inciso positivamente all’interno di una comunità, coinvolgendola o meno nella progettazione, con effetti di rilancio, scuotendo coscienze, sollevando dubbi, ponendo interrogativi costruttivi?

Rispetto alla domanda gigantesca che hai immaginato: “Quale rapporto ci deve essere tra committente (pubblico o privato) e autore (di arte o decreti)?” forse bisognerebbe riflettere sul senso della Pubblica Amministrazione, sulla sua funzione e sul suo scopo e di converso sul senso dell’arte nello spazio pubblico. Ho l’impressione che le associazioni sul territorio svolgano un ruolo di “primo intervento” e che poi il compito dello Stato debba essere quello di sostenerne la portata e la continuità d’azione. Secondo la tua esperienza, che idea ti sei fatto?

Con murales “migliore” prendo come riferimento il parametro attuale applicato generalmente all’arte urbana: quello estetico. La bellezza non è, purtroppo o per fortuna, l’unico parametro che possa far funzionare un murales nello spazio pubblico.
Hai centrato probabilmente una questione fondamentale nel ragionamento tra strumento e funzionamento: il coinvolgimento.
Ma qui si entra in un terreno complesso. Il coinvolgimento non è sinonimo di partecipazione secondo il calcolo che, più gente partecipa, maggiore è il coinvolgimento. Ma il valore e la qualità sono date dai contenuti: se l’argomento affrontato arriva al contesto (anche nel conflitto), allora il coinvolgimento funziona a prescindere se alla progettazione hanno partecipato una, dieci o cento persone. In sintesi, la partecipazione non è coinvolgimento ma una fase progettuale per conoscere il contesto. Ed è la conoscenza del contesto a provocare il coinvolgimento. Qualche esempio: se si vuole far conoscere un episodio, un evento storico, una decisione, un personaggio, un pensiero sconosciuto, la partecipazione è pressoché inutile, anzi dannosa, perché si sposterebbe su questioni già conosciute. Viceversa, se c’è già una comunità/gruppo/associazione che agisce nel contesto e si vuole incentivare questa azione, allora la loro partecipazione è determinante sia per la parte progettuale che per quella di azione sul territorio. Possiamo dire che lo strumento, per funzionare, ha bisogno del coinvolgimento, che passa attraverso la conoscenza del contesto.
E qui vengo alla tua domanda, a cui rispondo con una domanda: chi provoca tutto questo? Chi decide di intervenire nel contesto con l’arte urbana? Chi decide e struttura la parte della conoscenza del contesto? L’azione di un’associazione come può essere sostenuta?

C’è un’esperienza che può riassumere tutto: le pittate allo Zen. Qualche anno fa sono riuscito ad infilarmi allo Zen2 di Palermo, considerato il quartiere più malfamato e pericoloso della città. Effettivamente il quartiere in quel periodo (e forse anche ora) non era presidiato dallo Stato, ma da chi curava gli affari legati ai furti e allo spaccio. Grazie ad un’associazione che seguiva il doposcuola e alcune attività con i ragazzi sono riuscito prima ad entrare e poi, piano piano, a dipingere sui muri dei palazzi. Il tutto ovviamente ed inevitabilmente dialogando con gli abitanti. Volevo testare la forza della pittura e delle pittate, vedere come lo strumento poteva arrivare nel punto più estremo. E fu un successo: nel giro di qualche pittata mi trovai tra i “padiglioni”, nel punto dove avvenivano i fatti peggiori, provocando un dialogo con tutti. Fondamentale fu anche l’alleanza con Nemo’s, non solo nel disegno, ma anche nel costruire relazioni. Un successo che si è trasformato in un insuccesso appena ce ne siamo andati: lo strumento pittorico aveva funzionato in modo perfetto nell’inserirsi, capire e creare relazione nel tessuto sociale, ma non era stata che un’eccezione, un piccolo evento al di fuori della vita reale del quartiere. L’associazione che ci aveva introdotto non aveva avuto la forza di seguirci e le relazioni che si erano create erano con noi, che partivamo il giorno dopo, e non con loro che erano lì quasi tutti i giorni.
Avevamo costruito uno strumento efficientissimo, ma non aveva funzionato.

Da quello che mi dici, possiamo definire che il tema del coinvolgimento abbia valenza più in termini di qualità che non di quantità rispetto ad uno scopo, che possa esistere o meno in base alla tipologia di messaggio e contenuto che si intende veicolare in rapporto alla necessità di un territorio.

Se la necessità di un territorio è quella di ricevere un elemento di aggregazione e di compattazione rispetto a delle istanze comuni, allora dovrebbe aver luogo la partecipazione. Se la necessità di un territorio viene individuata nella volontà di comunicare un determinato messaggio “nuovo” o ai più sconosciuto, allora la partecipazione effettivamente non ha troppo senso.

La prima soluzione potrebbe prevedere un esito pittorico o installativo, al limite dell’assurdo, anche antiestetico, perché è importante che parli principalmente alle persone del territorio che quella esperienza hanno vissuto come comunità, evidentemente con la volontà di raccontarne e divulgarne il senso profondo ad altri che non ne hanno fatto parte.

La seconda soluzione, forse, un approccio comunicativo non dico necessariamente più didascalico o illustrativo ma più diretto, forse perché si deve parlare a più persone, facenti parte o meno di quella comunità a cui è rivolto il messaggio.

Ora, la risposta intorno a cui giriamo e rigiriamo probabilmente è una sola. Chi decide di intervenire nel contesto con l’arte urbana? Lo Stato. Chi decide e struttura la parte della conoscenza del contesto? Lo Stato, affidandosi a degli enti preposti di manifesta professionalità. L’azione di un’associazione come può essere sostenuta? Attraverso dei bandi a cui quella associazione può concorrere.

Questa mia ipotesi di responsabilità, su cui mi dirai la tua, è stata un po’ suggerita dalla tua prima risposta, all’inizio un po’ dal significato oscuro. A mio modo di vedere, bisognerebbe andare alla fine del processo e capire come strutturare un approccio sistemico e integrato in senso artistico alla vita pubblica.

Come fare in modo che l’assenza di uno Stato non debba essere colmata dall’iniziativa di privati (artisti e non)? Come fare in modo che gli artisti non debbano svolgere il ruolo di assistenti sociali in uno Stato di emergenza perenne? Come fare in modo che l’azione statale, attraverso lo strumento artistico, abbia una consistenza in termini di continuità e lavoro sul territorio?

Lo Stato è quello che due anni fa, nel maggior momento di difficoltà culturale, ha concepito e generato la campagna Io resto a casa e il termine distanziamento sociale. Lo Stato è quello che fatica a spiegare le cose e preferisce fare una divisione tra buoni e cattivi. Lo Stato è quello che, a livello accademico, ha soppresso il corso di Nori e qui, nella mia città (Reggio Emilia), ha espulso l’ente russo a Fotografia Europea senza formulare alcun ragionamento. Ora, se lo Stato fa lo stato, che cosa dobbiamo fare?

Sul fatto che sarebbe stato mille volte meglio parlare di distanziamento fisico piuttosto che di distanziamento sociale mi trovi assolutamente d’accordo, se è quello che intendi. A proposito invece della campagna Io resto a casa, non riesco a capire se la tua critica affronta un aspetto tecnico oppure è posta a livello di metodo, di scelta…Mi farebbe piacere che potessi esplicitare meglio il tuo pensiero.

Ad ogni modo riscontro anche io che il problema della polarizzazione tra bene e male, tra buoni e cattivi (che informa la famosa questione della bolla dei social network per cui ci troveremo maggiormente a vedere contenuti di persone che hanno un pensiero vicino al nostro) è dannoso sotto tutti gli aspetti, poiché elimina i ragionamenti intermedi tra i due estremi in grado di metterne in discussione i capisaldi, perdendo un’occasione utile per generare un dibattito costruttivo.

Per quello che riguarda gli esempi da te citati, prodotto di un clima di demonizzazione e censura a priori di qualsiasi apporto culturale russo, mi trovi assolutamente al tuo fianco.

Per rispondere alla tua ultima domanda, mi verrebbe da citarti la celebre frase di Piero Calamandrei, che sono sicuro ti farà un certo effetto: Lo Stato siamo noi.
E se è vero che lo Stato siamo noi, da cittadino attivo e saggio, in virtù di tutta l’esperienza in termini di apporto culturale che hai maturato, quale potrebbe essere un manifesto propositivo di idee realizzabili per immaginarsi il futuro dell’arte nello spazio pubblico nei prossimi anni?

Io resto a casa. Ci sono due modi per raggiungere un obiettivo: spiegando le cose bene, facendo capire la realtà e le conseguenze oppure imponendo scelte, motivandole con dei numeri. Culturalmente la scelta si può sintetizzare così: se c’è la convinzione che il popolo ha l’intelligenza per capire si spiegano le cose; viceversa, se si è convinti che è una massa di imbecilli allora si impongono le cose. Nella mia città hanno chiuso subito i parchi, unico luogo di sfogo per la gente che scaricava le preoccupazioni correndo e camminando, sull’ipotesi che buona parte della cittadinanza non avrebbe rispettato le regole; peccato che il giorno prima le multe per assembramenti fossero state 14 su una popolazione di 170 mila abitanti.

La cultura: Pasolini, Guttuso, Carlo Levi, Primo Levi, Sciascia, Montale, Maccari, Daumier, Hugo, Zola, De Sica, Visconti, Volonté, Rosi, Monicelli, come altri moltissimi autori che hanno fatto la storia della cultura, venivano categorizzati come “artisti sociali” che si occupavano di “arte partecipata”, di “territorio”? No! E molti di loro, di fronte a questa definizione, non avrebbero reagito bene. La cultura per sua natura si deve occupare di realtà, di questioni sociali, non perché è virtuosa o perché è impegnata, ma semplicemente perché è il suo ruolo e la sua responsabilità. Non servono manifesti. Serve prendersi le proprie responsabilità da un lato capendo quello che ci sta intorno e dall’altro evitando la retorica, la propaganda, senza assecondare richieste assurde di palazzinari e uffici di marketing. È così difficile?

L’autore

Tiziano Tancredi

Tiziano Tancredi (Roma, 1989) è un curatore d’arte contemporanea interessato ai rapporti di ordine antropologico, sociologico e architettonico che le arti visive instaurano con lo spazio pubblico.

Storico dell’arte con laurea triennale e specialistica conseguite all'Università La Sapienza di Roma, nel 2014 ha collaborato con Nuda Proprietà all’interno del Rialto Sant’Ambrogio di Roma. Ha curato molteplici mostre personali (tra cui Trasforma di Truth alla Horti Lamiani Gallery, Profili rivoluzionari insieme a Giovanni Argan dell’artista Leonardo Crudi, Double U di ADR alla Parione9 gallery) scritto testi critici per cataloghi, articoli e recensioni per riviste d’arte contemporanea, tenuto seminari ed interventi, condotto visite guidate, curato la comunicazione (ufficio stampa e social media) in ambito museale, galleristico e per festival.

È co-founder del Collettivo Dialoghi Artistici con cui tra il 2021 e il 2022 ha realizzato il progetto E-CRIT, un dialogo informale online sull’arte contemporanea che in tre diverse stagioni ha coinvolto 15 artisti di diverse generazioni. Nel 2021 ha curato la realizzazione del progetto Lupus in Muta, doppio murale dell’artista Lucamaleonte sulla facciata dell’IC Borgoncini Duca “Via G. Manetti” e sull’asilo nido “I Cuccioli di via Silveri”, entrambi a Roma. Tra il 2021 e il 2022 è stato assistente della Galerie Valeria Cetraro di Parigi. La sua prima mostra collettiva curata dal titolo « Il Personale è Politico | Il Politico è Personale » con opere di Collettivo FX, Federica Di Pietrantonio, Guerrilla Spam e Verdiana Bove, ha avuto luogo a Fiera di Verona dal 21 al 24 febbraio 2023 in occasione dell'XXI congresso nazionale dello Spi-Cgil.

Dal 2021 collabora con la Street Levels Gallery di Firenze con cui porta avanti una serie di interviste ad alcune delle personalità più interessanti del panorama italiano e europeo dell’arte urbana. Vive e lavora a Parigi.

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