Soluzioni poetiche a necessità pratiche. Intervista a Rub Kandy

GSoluzioni poetiche a necessità
pratiche. Intervista a Rub Kandy

di Tiziano Tancredi

Molto spesso si parla di Problem-solving. Ma non con altrettanta frequenza capita di imbattersi nel concetto di Problem-searching. Un problema è necessariamente qualcosa di negativo? Quali e quanti approcci si possono intraprendere quando si lavora artisticamente nello spazio pubblico in solitaria o in gruppo? I graffiti sono goliardici? Quale incontro a livello culturale fu possibile tra Mosca e Washington durante la Guerra Fredda? E l’anamorfosi in tutto questo cosa c’entra?
A questa e altre domande ha risposto Mimmo Rubino, alias Rub Kandy che si autodefinisce art-designer. Che per sua ammissione poi non è altro che un termine inventato. Di sana pianta. Poco male, una scusa in più per continuare a cercare soluzioni poetiche a necessità pratiche.

Ciao Mimmo, iniziamo subito con una domanda difficile perché esistenziale, per non dire ontologica.

Nella tua densissima biografia di presentazione per il festival della Filosofia del giugno 2019 si leggeva:

“Mimmo Rubino, noto come Rub Kandy, vive a Roma.

Si autodefinisce art-designer, provando a tenere assieme, in un termine inventato, pratiche creative contrastanti, conciliabili solo nel terreno dei forse, dei prototipi, dell’esemplarità. Problem-solving vs Problem-searching. Processi accurati per obiettivi trascurabili. Soluzioni poetiche a necessità pratiche. Estetica del fallimento, Crisis-Surfing, auto-sabotaggio, culto della nevrosi, egocentrismo nel pubblico, ingerenza del social nel privato. Stanze inabitabili, bicchieri mezzi pieni, vizi, procrastinazione. dreaming to find order.”

Ed ecco una serie ipotetica di domande che potrebbero essere venute a chi curioso abbia letto questa tua biografia: Che cos’è un art designer? Qual è il rapporto tra Rub Kandy e Mimmo Rubino?

Molti anni fa una mia professoressa del liceo disse a noi alunni probabilmente qualcosa di abbastanza evidente su cui però non avevo ancora riflettuto: un problema non è necessariamente qualcosa di negativo. Mi sentirei di aggiungere, come noto a molti, il significato che la parola crisi assume in giapponese nell’accezione semantica di opportunità. In tal senso, mi sembra di potere individuare una vicinanza concettuale tra alcuni enunciati della tua biografia. Specificatamente Problem-solving vs Problem-searching, Estetica del fallimento, Crisis-Surfing. Sbaglio?

Due decenni fa Davide Grassi e Igor Stromajer registrarono il dominio problemarket.com (adesso non più attivo ????). Una specie di quotazione paraborsistica del valore dei problemi. L’idea era più o meno: tutto ha un valore, tante cose importanti nascono dalla soluzione dei problemi, QUOTIAMO I PROBLEMI!
In un passaggio del film doc Helvetica, due designer (mi pare i NORM) raccontano con parole esatte il valore che ha la questione, il problema, il “vincolo” per loro e, in generale, nel graphic design. il vincolo è fondamentale. il foglio bianco è tosto e manco troppo utile. La lingua universale non dice nulla se non ci sono cose universali di cui parlare. Serve terreno. Grip.
Le testimonianze più o meno serie di come problemi e soluzioni siano legati non si contano. Dunque sì, questione molto trattata, probabilmente è uno dei capisaldi della nostra evoluzione. Analisi e soluzione del problema… certo, c’è da capire e guardare il problema, individuarlo, scegliere il punto di vista… se il problema del surriscaldamento globale lo affronti con i condizionatori ecco, lì non so se hai davanti chiari il problema e la soluzione.
Diciamo che sempre, forse, la soluzione di un problema è questione un po ‘ ideologica, insomma dipende dal tuo ideale e, più spesso, dal tuo scopo. Cosa ci guadagni da un problema? il venditore di frigoriferi dal problema del caldo ci guadagna la vendita. L’inventore (e mettiamoci in mezzo tutti, designer, meccanici, artisti) dalla scomposizione del problema potrebbe guadagnarci una soluzione che, delle volte, potrebbe essere anche esteticamente interessante, come quando trovi la parola esatta per dire proprio quella cosa lì.

Tornando alla questione diciamo più squisitamente artistica, ecco, l’artista o almeno io, quando parlo di problemi e crisi ci metto sempre il valore aggiunto dell’errore, i doloretti del giovane pittore che non muore mai dentro me. Il maestro Gianni Motti, amico e mentore, spesso ci scherzava e diceva: “è quando sei con le spalle al muro che devi fare il salto mortale”, lui è amante del calcio e delle figure del vecchio calcio, il libero, il fantasista, il CONTROPIEDE.. ecco l’artista ha, paradossalmente, anche un ruolo etico, quello di individuare gli errori di schema e far partire il contropiede. Oltre, e questo è un po’ più il mio metodo, il potersi piangere addosso, ma con stile :-). Crisi surfing appunto. Ne deriva uno dei miei problemi principali, che tu da amico conosci: quello di muovermi solo alla fine, in prossimità della scadenza, aspettando l’energia, l’onda. Ecco tra i vantaggi del metodo artistico c’è anche questa cosa bella di poter usare queste fricchettonate tipo “energia”. La pianificazione lineare a volte uccide il progetto creativo, che non deve essere certo partorito da scimmie sotto LSD (però..) però ha bisogno certamente di prototipazioni non lineari. Un po’ il contrario della pianificazione aziendale (anche se poi le aziende moderne yeah in realtà attingono a piene mani dalle metodologie artistiche e spesso assumono scimmie sotto LSD per portare avanti i brainstorming). Insomma, mentre il frigorifero del produttore deve funzionare, il frigorifero dell’artista potrebbe anche non funzionare, perché il suo scopo non è raffreddare i cibi, ma essere letteratura del percorso estetico, della lotta eterna delle persone di raccontare cose difficili (yeah yeah yeah) con le parole, gli oggetti, le forme, la scultura. In questo senso il metodo di un artista, se pure vicino al designer, resta un metodo forse più autoriale, meno necessario di risparmio di materiali, produzione, tempo (è forse un lusso?) e dunque più aperto a parlare dei guai di chi lo ha costruito. Mi viene sempre in mente una frase di Lodola credo, “Nella mia vetrina è esposto un cartello “Qui si vendono patate” ma io non vendo patate vendo il cartello”. Art designer mi sembrava, quando la scrissi, un modo per dire questa cosa strana: questa necessità per un artista di attingere a piene mani dalle magnifiche potenzialità del metodo creativo dell’arte applicata, questa altrettanto importante necessità di lasciare nel processo le famose aperture, le opacità, gli intoppi e, perché no, la letteratura personale. In fondo siamo solo ciò che siamo. Meglio guardarci allo specchio ogni tanto. Insomma significa che vorrei essere un designer ma poi mi perdo a pensare alle mie ex fidanzate.

All’inizio del 2019 al Macro di Roma ho assistito dal vivo ad una conferenza di Nicolas Bourriaud sull’estetica relazionale. In quella conferenza il critico francese citò l’artista inglese Liam Gillick che ripeteva spesso: “My work is like the light in the fridge. It only works when there are people to open the fridge door. Without people, it’s not art – it’s something else – stuff in a room” (“Il mio lavoro è come la luce del frigo. Funziona solo quando ci sono persone che aprono la porta. Senza le persone, non è arte – è qualcos’altro – cose in una stanza”). La luce del tuo frigo funziona bene? Siamo davvero ciò che mangiamo? Il tuo frigo di solito è pieno o vuoto e che cosa ci conservi dentro? Per le tue opere nello spazio pubblico, a seconda della tipologia e dell’età delle persone che coinvolgi nel processo artistico, come cambia il tuo approccio relazionale? Se vuoi puoi fare alcuni esempi.

Il mio frigo è sempre vuoto o dentro ci trovi roba ammuffita. La luce si accende male, tipo a caso, sempre quando è chiuso. Se un famoso collezionista aprisse non noterebbe nulla. Cazzo!
Mi dà anche fisicamente fastidio il frigo, ‘sta bara verticale.

Certo che siamo ciò che mangiamo, da millenni e millenni ci reincarniamo nella stessa carne: mangiamo altre specie e ci riproduciamo con la nostra propria. Dentro di te c’è la memoria della prima forma di vita. siamo tipo un lievito madre, una poltiglia di cellule copia di copia di copia.. una schiuma.

In linea di massima ho due approcci nello spazio pubblico:
quello più autistico, più di derivazione writing, cioè vado dritto avanti e porto a casa il lavoro cercando di silenziare il contesto, un esempio è REVOLVER, la betoniera. Un altro è Simon Bolivar Steps. Tutte cose progettate per corrispondere al risultato.
Quello più workshop/cazzeggio/prossimità, ovvero opere che non nascono da un progetto definito ma, piuttosto da un metodo, da alcune regole che mi do, in maniera più o meno chiara. Opere che poi si sviluppano con più o meno fortuna in base agli attori. Esempio è L’Albergo delle Piante con Angelo Sabatiello, dove come artisti eravamo più degli agitatori che dei designer. Altro esempio sono i workshop, sai che mi piace fare laboratori, quelli li costruisco proprio come se fossimo un’agenzia di comunicazione, si tira fuori l’idea e la si costruisce assieme, nessuno sa bene cosa verrà fuori. O altro esempio è la collaborazione fatta con Biancoshock in una fabbrica abbandonata a nord est di Milano, lì né io né lui avevamo un progetto ma abbiamo giocato ed è venuto fuori ALL OF THE LIGHTS.

Il montatore di “Non Essere Cattivo” racconta, nel making of, che Caligari “non spreca pellicola”, che il film era già montato nella testa del regista. Tutto scritto.
In un testo di Kiarostami, invece il regista dice che per lui fare un film è come scegliere i giocatori di una squadra, metterli in campo e godersi la partita.

Credo che siano due atteggiamenti comunque validi. A volte hai una visione precedente e la disegni, altre volte sei un rabdomante alla ricerca dell’acqua. A Cipro per esempio stetti una settimana a cercare acqua e poi trovai una cisterna e chiamai un Papa Ortodosso a fare una messa di benedizione.

Con il tuo benestare, andrei un po’ più in profondità rispetto ad alcune opere che hai menzionato. Simón Bolívar steps, realizzato nel 2013 a Panama, fa parte di una serie di lavori legati al concetto anamorfico che hai sviluppato con una certa ricorrenza soprattutto tra il 2010 e il 2013. Perché avevi scelto l’anamorfosi come leit motiv di quel dato momento di ricerca? È possibile individuare un rapporto di dipendenza tra percezione e illusione? Sebbene quella fase anamorfica sia ormai superata, non ti sembra che la geometrizzazione dello spazio riemerga con una certa continuità e coerenza nel corso di tutta la tua pratica artistica?

L’anamorfosi venne fuori la prima volta su un lavoro di arte applicata. Dovevo fare l’art di un vinile techno di una piccola TRIBE che frequentavo, i RIOTEK. All’epoca andava tutta roba vettoriale, disegni da serigrafia e lineette sintetiche. Allora decisi di fare l’opposto, di tornare a una roba tutta raster, tutta fotografica. Così andai in una vecchia fabbrica e disegnai tutta la copertina dal vero, letteralmente, i titoli, le info. La parte principale era un teschio stilizzato che poi regalai alla tribe come marchio. Il teschio era riferimento all’opera famosissima “the Ambassadors” di Holbein, nella quale compariva un teschio visibile solo da un punto di vista. Il teschio, la classica vanitas, sopravvive fin troppo nella iconografia underground e all’epoca soprattutto era tutto un teschio. La mattina, alle feste, con le prime luci potevi vedere i teschi camminare. L’opera si chiamava The Eternal, titolo di un pezzo dei Joy Division, un riferimento alla fabbrica in cui avevo fatto il lavoro, di cui tutto l’ex tetto era in eternit.
Da lì in poi ho fatto una serie di una decina di Anamorfosi. Mi piaceva perché era un modo di lavorare bello, c’era la pittura, c’era l’architettura, la fotografia. Ovviamente c’era un po’ di effetto wow e di illusione, come giustamente noti, anche se ho cercato di non esagerare con gli effetti speciali ma di spingere, piuttosto, sull’aspetto sacro e magico dell’immagine. Per quanto riguarda l’illusione e la percezione, è roba che non ha mai smesso di affascinarmi, conserva un posto speciale il primo libro che rubai alla biblioteca del liceo “Arte e illusione” di Gombrich, superato in più cose ma certamente per me 18enne una specie di libro iniziatico tipo il bambino Bastiano in soffitta con “La Storia Infinita”.

C’è una parte tecnica/percettiva/illusoria dell’arte che non smette di farci sognare e, lì dove l’arte si avvita nei concetti e nelle analisi, nelle metodologie fino alla noia lì, con un guizzo, a volte flirtando col peggio commerciale, l’arte torna magicamente a illuderci con un cartone animato pixar, con una qualche opera in Biennale che non dice niente eppure ci fa godere come esseri portatori di occhi.

Vorrei chiederti qualcosa di più sul primo approccio che utilizzi nello spazio pubblico “quello più autistico, più di derivazione writing, cioè vado dritto avanti e porto a casa il lavoro cercando di silenziare il contesto.”

Il 14 aprile del 2022 sul tuo Facebook e Instagram hai postato una foto di graffiti parigini scrivendo:

“Graffiti è testimonianza..
arte, non arte, quello è un attributo non rilevante. La sua rivoluzione estetica è stata fare opere firmate senza opera o fare della firma l’opera. Nulla di analizzabile secondo le categorie presenti al tempo. Come l’introduzione del DJ che con la base ha cambiato tutta la musica a seguire, hip hop o altro.
Graffiti non è “ti piace/non ti piace”. Graffiti don’t care about you. Graffiti è testimonianza. graffiti è IO SONO STATO QUI.”

Qual è il tuo rapporto con i graffiti, con il writing (anche se i più puristi della distinzione non potranno vederli accostati uno dopo l’altro)? Li hai fatti, hai fatto parte di crew? Se sì, come hanno inciso nel tuo percorso di ricerca artistica e non?

Quanto cazzo è boomer scrivere la roba seria su Facebook? Questa figuraccia potevi evitarmela.

La prima volta che vidi una bomboletta spray era in mano a mio fratello, lui aveva dodici anni e io otto, la comprammo assieme ad altri ragazzini da Giannattasio, la ferramenta di via Messina (Potenza ndr). Ci chiese più volte che cosa dovevamo farcene e lui: “verniciare le biciclette”. Il risultato fu un TEDDY BOYS su un muretto più qualche ULTRA’ POTENZA e MATERANO CONIGLIO con tanto di disegno CAZZOCONIGLIO.

Verso il ‘95 c’era una bella scena a Potenza, parliamo ovviamente di provincia, roba piccola ma, per come è fatta l’Italia, spesso la provincia ha fatto meglio delle city, se pure con il dovuto ritardo.

Ovviamente ho fatto graffiti, pacchetto completo, dalla scritta alla pupa sotto la scuola alla roba Posse libertaria a un po’ di bombing sui bus eccetera. Benché a me piaceva disegnare soprattutto per cui, mentre oggi prediligo le scritte ignoranti e il ritorno alla scrittura naif NOEMI TI AMO, all’epoca ero tra quelli della crew 2BK (Briganti del Basento ndr) che amava i puppets.
Provo a sintetizzare ciò che penso sui graffiti (all’epoca si usava chiamarli Aerosol Art e guai a far colare il colore). Credo che, mentre nelle scuole d’arte artisti veteroguttusiani rompevano il cazzo per difendere un loro qualche pippone fallimentare.. come un vento fresco, seppur un po’ in ritardo, arrivava questa cosa nuova. Abbiamo subìto per anni la cancel culture contro il writing, “eh ma sono solo scritte” “eh ma è solo vandalismo copione” “eh ma è solo una roba di bande” “eh ma è solo esibizionismo”… e invece tutte le discipline del marketing, della visibilità, della grafica, del branding, passavano di li’ intanto che nelle scuole d’arte scassavano le palle con il chiaroscuro. È a oggi inspiegabile come il writing non trovi ancora il suo spazio di rispetto nella Storia dell’arte, sempre liquidato come fenomeno e mai affrontato come rivoluzione formale. Indicativo come proprio la street art venga trattata come rivoluzione e non come restaurazione, ma questa è un’altra storia.

Come hanno influenzato la mia crescita los graffitos? il VERBO, senz’altro, l’amore per la parola. E poi quell’atteggiamento ULTRAS, diciamo GOLIARDICO che ti fa sorridere sotto i baffi quando vedi la scritta MICIOO (fiancata dx) OOOOOOO (fiancata sx) sulla SMART parcheggiata. Voglio dire.. lo sai che è cacca. Dai no, ragazzi, non si fa… Ma che meraviglia è? ❤️
Insomma, per tornare all’inizio della tua domanda, l’approccio è che certe marachelle alla fine le fai e basta. Ricordo un derby Potenza-Matera in cui un tipo, in un momento relativamente tranquillo, andò verso un celerino, gli alzò il casco e lo colpì con un pugno, abbattendolo. Ovviamente fu arrestato subito. Ma ora io racconto. È successo. Non so se tale bisogno di racconto nasca da vera poesia o da frustrazione. Non so. Ma sono un amante dell’arte e non una guardia e, ahimè, vedo poesia anche nei gesti stupidi. Godo mentre mi scorre davanti un vagone con sù dipinto S U P E R C A L I F R A G I L I S T I C H E S P I R A L I D O S O… CAZZO SIGNIFICA? protesta qualcuno.. NESCIO, rispondo io. SO SOLO CHE è COSì e CHE GODO.
Difficile trovare senso a un cretino che per farsi notare tira un cazzotto a un poliziotto senza motivo, se non si capisce che a volte la poesia sta nel vizio, nella perversione.
Il culmine di ‘sta roba la ebbi con l’opera WORK WILL MAKE YOU FREEEEEE che casino in quella occasione 🙂
TEDDY BOYS NEVER DIE!
RIP FRATELLO MIO AMORE GRANDE!

È vero, l’opera WILL MAKE YOU FREE che installasti tra il 25 e il 26 aprile del 2011 al Pigneto, creò parecchio scalpore soprattutto mediatico… Vuoi ripercorrerne i momenti salienti così come il significato con cui l’avevi pensata?

Me la sono cercata 🙂 La cosa che mi sconvolge di più è che siano passati 11 anni. All’epoca m’interessava soprattutto la PAROLA e il lato abusivo dell’uranio art. Lavoravo spesso con Lorenzo Lo Sasso, un designer con cui avevamo un progetto chiamato BLACKLAB, scultura abusiva in ferro, che aveva già prodotto Trilly (2001) poi un Senza titolo (2002) e poi RATZINGER (2009). I primi lavori erano più romantici e figurativi, poi avevo preso una via più STRAIGHT… insomma ero la gatta che tanto andava al lardo, eravamo ebbri 🙂

Montammo su un ponticello di Roma la scritta WORK WILL MAKE YOU FREE, In ferro, ad arco, un po’ Disney. Traduzione più o meno letterale della scritta di Auschwitz. Mettici poi che casualmente era il 25 aprile. I compagni del comitato di quartiere Pigneto non potevano credere che, proprio in quel giorno, la sorte dava loro l’occasione di mostrarsi antifascisti in maniera così evidente e allora, nonostante i più, Digos compresa, avevano compreso non si trattasse di un’opera di un nostalgico, cominciarono a contattare i giornalisti per dir loro che “noi siamo quelli del quartiere e vi diciamo che i Nazi hanno montato una scritta nazi”, per dimostrare quanto erano duri e puri fecero addirittura una trattativa coi vigili del fuoco per essere loro personalmente a smontare la scritta. Così fu il delirio. Su alcuni quotidiani comparve il titolone “Scritta Nazista”, Alemanno, Sindaco all’epoca, dichiarò “spero che vengano presi al più presto” e nel giro di qualche ora le guardie, informate chissà da chi, mi chiamarono direttamente sul telefonino. A quel punto successe che il titolo del giornale prese il sopravvento, giustamente, sull’opera e ci fu una sacrosanta ondata di indignazione antifascista. Insomma se leggi che i nazisti hanno montato una scritta in città ti incazzi. Io ero a casa a leggere le notizie, sembrava una puntata dei Simpsons di quelli in cui tutto il popolo con fiaccole e forconi insegue Homer che ha fatto qualche disastro.
Ero preparato ai pipponi sul bello e sul cattivo gusto ma non a essere indicato come nazi. La mia coinquilina mi scrisse che erano passati due uomini gentili a fare domande e vedere la mia stanza in via dei Zeno. Così su consiglio dell’avvocato decisi di fare un’ intervista per chiarire. Il resto è un’ opera sotto sequestro e un processo per “diffusione di idee naziste e razziste..” da cui sono uscito innocente perché il fatto non sussiste o non costituisce reato.. non ricordo bene. Non mi va di raccontare o di avere pretese su cosa fosse o non fosse il senso dell’opera per me o per gli altri. Credo che l’opera è tutto questo assieme e conservo ritagli e rilievi e carte processuali. Certo la parola può esse piuma e può esse fero.

Quando usi lettere a volte sei preso alla lettera. Anche se io conservo con cura l’SMS che mi mandò all’epoca un folletto, parole attribuite niente meno che a Baudelaire ma chissà:
WORDS CAN AND SHOULD DO FOR THEMSELVES.
THEY HAVE THEIR POWER PERSONNEL, THEIR STRENGTH, THEIR INDIVIDUALITY, THEIR EXISTENCE OWN.
THEY HAVE ENOUGH STRENGTH TO RESIST THE AGGRESSION OF IDEAS.

Di tutte, mi diverte del processo, quando fu chiamato a testimoniare per l’accusa un agente:
GIUDICE: “lei cosa pensò quando vide questa scritta nazista?”
AGENTE: “ma noi lo sapevamo che non era una scritta nazista, lo sapevano tutti, si vedeva.”

Ci sono mille altre cose divertenti… tipo che poi per pagarmi il processo, assieme alla cara Jessica Stewart costruimmo una mostra di street art davvero mitica all’epoca. Con un botto di artisti bravi che mi aiutarono e andò tutta sold out. Tu c’eri?

Ah ma tu ti riferisci alla mitica 50/50 selected artworks del 2014? Ah no, purtroppo me la sono persa! Qual era la line-up?? Dove la faceste?

Sì, quella.
C’erano Alex Senna (Brazil), Alice Pasquini, Borondo (Spain), BR1, Cancelletto, Cuoghi Corsello, Diamond, Elfo, Eltono (Spain), Evan Roth (USA), Gio Pistone, Giulio Vesprini, Hogre, Hopnn, Hyuro (Spain), Icks, JB Rock, Kristofoletti (USA), LNY (USA), Mateus Bailon (Brazil), MP5, Mr. Klevra, Murphy, Nemo, Omino71, OX, Seacreative, UNO. Poi, invitati speciali da me, c’erano Toni Bruno, Patrizia Pecorella, Stefano Benini (Svizzera) e Fabio Milito, non propriamente street artisti ma creativi raccomandati e raccomandabili che mi erano stati vicino in quel momento.
La Jessica Stewart e io, Roma, da VISIVA, un posto bello bello e grande che faceva da hub culturale.
Era una delle prime volte che veniva fatta una mostra mercato e, contro ogni aspettativa, andò quasi tutta sold out nel giro di una sera. Insomma l’abbiamo gentrificata noi la street art. Erano tutti prezzi relativamente accessibili, gli artisti, di buon cuore, avevano dato bei pezzi a bei prezzi, il 50% andava all’artista l’altro 50% al mio avvocato. Quando un pezzo veniva venduto facevo mettere un bacio rosso di rossetto di fianco l’opera, da Jessica, (che con la sua proverbiale professionalità e con il suo meno conosciuto ma grande cuore, fu fondamentale, non mi stanco di volerle bene per questo) Quando il pubblico cominciò a vedere che le opere andavano via ci fu’ una corsa all’accaparramento, roba di cui avevo solo sentito parlare. Se penso a quanto valgono ora quegli stessi artisti penso che il pubblico era più preparato di noi e che avremmo fatto bene a comprare tutto noi, altro che Bitcoin. Con 800 compravi un pezzo da un metro di Hyuro (RIP), con 2000 una finestra di Borondo o un quadro di Alice Pasquini, con 1000 una stampa favolosa di Cuoghi Corsello, con 800 euro un pezzo unico grande di Elfo o di JB, con 400 la mitica foto del cancello di Biancoshock e così via. Insomma l’arte è un valore, soprattutto se scelta bene e noi fummo fortunati. C’erano dei lavoretti meravigliosi di NEMO, una tavola bellissima di MP5 e così via chiedo scusa ma non posso nominarli tutti sennò non finisco più. Hogre, per esempio, ‘sti giorni sarà in personale da Wunderkammern coi giusti e meritati prezzi e lì con 1000 euro prendevi un dittico bello grande. BR1 aveva spedito una tela meravigliosa che prendevi per 1200 euro. Pistone, Kristofoletti, king come OX.. vogliamo parlare del master Evan Roth? Che tempi. Con 10000 euro ti compravi una collezione e invece le persone che dicono che l’arte non vale con 10000 comprarono una panda che adesso è già rottamata. W l’arte e il capitalismo!
Una bella festa. Ricordo la felicità quando mi si presentarono Cuoghi e Corsello arrivati apposta da Bologna. Cuori.

Che poi tutti a dar contro i curatori ma poi non c’è artista che non lo sia stato in almeno un’occasione. Tipo quella volta nel 2018 che insieme a Biancoshock ed Elfo curasti #EXHIBITIONIST when public attitude becomes form in un kebabbaro al Pigneto a Roma, non è che c’hai il vizietto della gentrification, tu? In un estratto del comunicato stampa a proposito della selezione avete scritto:

“Abbiamo messo assieme dieci artisti tra i più influenti degli ultimi vent’anni provando a disegnare una mappa orientativa di una tendenza tanto forte quanto di difficile definizione. Sono artisti che, pur essendo imparentati con la street art, portano avanti una ricerca non pittorica, fatta di pratiche installative, di happening, di interventi che interrogano lo spazio pubblico prima ancora di decorarlo. Artisti che della graffiti culture conservano, più che le bombolette spray e l’iconografia, l’attitudine irriverente, abusiva, intrinsecamente anarchica, innestandola poi con ricerche personali strutturate e pratiche proprie dell’arte contemporanea”.

Qual è, a tuo modo di vedere, la differenza a livello di branding tra la street-art e l’arte contemporanea che dovrebbe orientare la scelta di un artista verso l’una o l’altra? La street-art come attitudine di derivazione dei graffiti, verve giovanile di sperimentazione che poi matura, si struttura in pratiche artistiche propriamente dette che passano attraverso determinati momenti di sviluppo, riconoscimento e legittimazione dell’arte contemporanea (quali premi, residenze, rappresentazione da parte di gallerie, accesso al mercato dell’arte, acquisizioni da parte di fondazioni o di musei)?

Tra l’altro, sono davvero gli artisti che mirano a diventare tali oppure in alcuni casi si tratta di processi di più ampio respiro a livello istituzionale che non dipendono unicamente dalla loro intenzione? Ho intercettato recentemente un nuovo termine, quello di artification delineato nel 2004 da Roberta Shapiro. Nell’abstract di quel saggio si legge:

“La constatazione dell’aumento generale dell’attività artistica e del dinamismo della produzione di scienze sociali ad essa dedicata ci incoraggia a proporre l’artificazione come un nuovo campo di indagine per la sociologia dell’arte, dal punto di vista del cambiamento sociale e culturale. L’artificazione si riferisce alla trasformazione della non-arte in arte. È il risultato di un intero lavoro sociale, che consiste nella trasfigurazione di persone, oggetti e attività. Non si tratta solo di cambiamenti simbolici, come la nobilitazione di azioni o persone. L’artificazione comporta anche cambiamenti concreti: il cambiamento del contenuto delle attività, la trasformazione delle qualità fisiche delle persone, l’importazione di nuovi attori e oggetti, la riorganizzazione degli assetti organizzativi, ecc. Tutti questi processi, in cui la designazione e l’istituzionalizzazione sono collegate, portano non solo a uno spostamento del confine tra arte e non arte, ma anche alla costruzione di nuovi mondi sociali. In questo articolo passiamo in rassegna esempi di artificazione, tratti da diversi campi: l’hip-hop, la fonografia, l’incisione, la perruque ouvrière, l’arte primitiva.”

E se le domande non fossero già abbastanza dense, tu che ne pensi del ruolo del curatore? Quali sono i tuoi curatori di riferimento?

Esattamente.

Finiamo un po’ in leggerezza. Nel 2016 sei stato invitato da Le Grand Jeu all’interno di “Artmossphere” Biennale di Street Art che si è tenuta a Mosca dal 30 agosto al 9 settembre. In quell’occasione sviluppasti un lavoro che parlava di apertura culturale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica durante gli anni ‘80, in totale controtendenza rispetto al clima di guerra fredda che ha contrapposto i due blocchi dal punto di vista politico, ideologico e militare. Ce ne vuoi parlare più nello specifico?

A Mosca mi fissai sul quartiere del Villaggio Olimpico. Era stato costruito per ospitare gli atleti dei giochi Olimpici del 1980. I primi e gli ultimi made in SSSR, a cui USA non partecipò.

È un posto abbastanza periferico a Ovest-sud-ovest di Mosca. Un luogo che conserva in parte la memoria dei giochi, grandi strade, grandi infrastrutture più o meno conservate e, soprattutto, un enorme alveare che adesso ospita famiglie.

Quello che mi affascinava era il contesto, in particolare la penetrazione e l’acquisizione della hip hop culture e dei graffiti in Russia.
Mentre la guerra fredda e la divisione in blocchi terminava, l’hip hop culture, col suo carico di colonialismo USA ma anche con la sua sincera internazionalità e forte componente libertaria antielitaria e soprattutto artistica, si diffondeva in Russia pronta per creolizzarsi e acquisire, un po’ come nel resto del mondo, le sue qualità locali.

Mi è difficile spiegarlo meglio di così perché era una linea emotiva, quello che mi interessava era ciò che restava, come poi quella iconografia HIP HOP SPORT USA si fosse innestata e sviluppata.

Così andai letteralmente a fare dei rilievi sul posto, ma soprattutto mi appoggiai alle foto di Google. Feci un modello in scala del quartiere riprodussi sui palazzi le scritte e i disegni che avevo trovato. Non i murales, ma proprio la roba tipo Ti Amo e W la Fica.. a dire il vero tanta roba la ricopiai così come era in cirillico senza neanche conoscerne il senso. Concentrandomi soprattutto sui ragazzini in età preadolescenziale. Nessuno di loro conosceva L’URSS, la storia del quartiere, Gorbaciov, Reagan e tutte ‘ste cazzate mentre tutti conoscevano il Rap, le Adidas, lo skateboard e questo lo trovai una cosa poetica.

Fu un lavoro complesso anche dal punto di vista dei materiali, c’erano foto, sculture, disegni, nulla era propriamente un’opera d’arte, aveva più il sapore di una ricerca, di una ricostruzione scientifica.
Come immagine rappresentativa feci un marchio sovrapponendo il bellissimo logo delle olimpiadi di Mosca 80 con il logo delle bombolette spray Krylon. È ciò che mi rimane.

Con Christian Omodeo di Le Grand Jeu pensammo un testo che raccontasse l’opera ma per me era difficile trovare un bla bla adatto poi venne fuori il seguente, una memoria dettami da un ipotetico mio coetaneo vissuto lì. Ho proiettato? Forse. È sbagliato?

“What about the places where we learned our first tricks?
..the place where we grew up was made to accomodate athletes of the 1980 Summer Olympics of Moscow. Huge Village. We arrived later, everything was there before: the concrete, the cold war. The first Games in East Europe, the last of SSSR. We did not take part in that international meetings, we just remember some graphics about, like stars, adidas style stripes and things like that. Didn’t care too much about Regan but sure we loved some things coming from USA like Skateboards and spray cans we started to use to scratch our form”.

L’autore

Tiziano Tancredi

Tiziano Tancredi (Roma, 1989) è un curatore d’arte contemporanea interessato ai rapporti di ordine antropologico, sociologico e architettonico che le arti visive instaurano con lo spazio pubblico.

Storico dell’arte con laurea triennale e specialistica conseguite all'Università La Sapienza di Roma, nel 2014 ha collaborato con Nuda Proprietà all’interno del Rialto Sant’Ambrogio di Roma. Ha curato molteplici mostre personali (tra cui Trasforma di Truth alla Horti Lamiani Gallery, Profili rivoluzionari insieme a Giovanni Argan dell’artista Leonardo Crudi, Double U di ADR alla Parione9 gallery) scritto testi critici per cataloghi, articoli e recensioni per riviste d’arte contemporanea, tenuto seminari ed interventi, condotto visite guidate, curato la comunicazione (ufficio stampa e social media) in ambito museale, galleristico e per festival.

È co-founder del Collettivo Dialoghi Artistici con cui tra il 2021 e il 2022 ha realizzato il progetto E-CRIT, un dialogo informale online sull’arte contemporanea che in tre diverse stagioni ha coinvolto 15 artisti di diverse generazioni. Nel 2021 ha curato la realizzazione del progetto Lupus in Muta, doppio murale dell’artista Lucamaleonte sulla facciata dell’IC Borgoncini Duca “Via G. Manetti” e sull’asilo nido “I Cuccioli di via Silveri”, entrambi a Roma. Tra il 2021 e il 2022 è stato assistente della Galerie Valeria Cetraro di Parigi. La sua prima mostra collettiva curata dal titolo « Il Personale è Politico | Il Politico è Personale » con opere di Collettivo FX, Federica Di Pietrantonio, Guerrilla Spam e Verdiana Bove, ha avuto luogo a Fiera di Verona dal 21 al 24 febbraio 2023 in occasione dell'XXI congresso nazionale dello Spi-Cgil.

Dal 2021 collabora con la Street Levels Gallery di Firenze con cui porta avanti una serie di interviste ad alcune delle personalità più interessanti del panorama italiano e europeo dell’arte urbana. Vive e lavora a Parigi.

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